C’è in atto la tragedia
E facciamo ridere

La prevalenza del cretino. In questi giorni tempestosi è tutto un susseguirsi di situazioni drammatiche, immagini tragiche, timori e tremori deprimenti e sconcertanti, scenari apocalittici una volta tanto giustificati, perché sapere che si è andati a tanto così da un incidente nucleare peggiore di quello di Cernobyl è una sensazione destinata a lasciare il segno.

È forse arrivata l’ora nella quale la storia del mondo, della civiltà o, perlomeno, dell’Europa rischia di scrivere la parola “fine”? Lo pensano in tanti. Ma probabilmente si sbagliano, perché se si analizza la società occidentale contemporanea e alla faccia del Novecento, il secolo più sanguinario e terribile della storia dell’umanità con tutte le sue stragi, le sue guerre, le sue soluzioni finali, si intuisce che, paradossalmente, non è il tragico la parola chiave che dà un senso a tutto, ma il comico. Anzi, il ridicolo. Anzi, ecco la parola giusta, il grottesco. Non è la violenza il sentimento base che informa l’essere umano di oggi, anche se ne cova in abbondanza, ma la stupidità. E quindi, se è così, l’autore di riferimento non è tanto Dostoevskij, il gigantesco Dostoevskij, il demoniaco Dostoevskij, con i suoi personaggi febbrili e tormentati, i suoi assassini in cerca di Dio, i suoi parricidi, i suoi “idioti” che si domandano perché il Male esista, ma molto di più Gogol, che ci ha regalato il ritratto assoluto dell’uomo grottesco. E ancora di più l’inarrivabile Flaubert, che della stupidità, della stupidità borghese, della micragnosa stupidità piccolo borghese, farisea, filistea, ottusa, inetta e frustrata è stato il più strepitoso indagatore e che da Bouvard e Pechuchet a Madame Bovary (l’avete letto? bene, non c’è bisogno di altro…) spiegano tutto, ma tutto davvero di quello che siamo.

È come se non fossimo in grado di reggere oltre una certa misura la dimensione tragica di un evento. La guerra in Ucraina è oggettivamente una cosa spaventosa e destinata a conseguenze pesantissime e imprevedibili, ma dopo qualche giorno non riusciamo più a essere alla sua altezza, come dire, a reggere il ruolo, a essere degni di quello snodo così assoluto.

È come se, a un certo punto, la nostra vera natura prenda il sopravvento e faccia trascolorare tutto nella pantomima, nella chiacchiera da bar, nel pettegolezzo da sciampista, nella noia, dimostrando quanto siamo inadeguati rispetto a quello che la gravità del momento richiederebbe.

Ad esempio, la vicenda della censura del corso su Dostoevskij, appunto, che il professor Paolo Nori avrebbe dovuto tenere alla Bicocca e che il rettore e il suo vice avevano goffamente sospeso “per evitare polemiche interne in questo momento di forte tensione” (!) aveva indignato tutti quanti.

E ci mancherebbe altro, se ne sono viste di censure cretine, tante e poi tante, ma una così cretina davvero è una cosa da Guinness. Però, quando i due cervelloni hanno fatto marcia indietro, scusandosi e coprendosi di ridicolo, in un paese normale sarebbe finita lì. Invece, nella repubblica delle banane e degli indignati in servizio permanente effettivo, sul garrulo mondo dei media è partita una pestilenziale retorica su Dostoevskij e tutti esperti di Dostoevskij e tutti esegeti di Dostoevskij e tutti traduttori e ventriloqui e compulsatori e decrittatori di Dostoevskij e io senza Delitto e castigo non potrei vivere e io senza Umiliati e offesi non sarei diventato quello che sono e io senza Memorie dal sottosuolo non affronterei la vita a testa alta e quella volta che io e i Karamazov e quella volta che io e Il giocatore, insomma, una trombonata talmente insopportabile che, al pensiero che l’unico libro letto da almeno la metà di questi cultori della grande madre Russia è il manuale di istruzioni dello smartphone, forse sarebbe stato meglio se quella volta il povero Dostoevskij lo avessero fucilato per davvero.

Ma se ogni paese ha gli intellettuali - e i giornalisti - che si merita, figurarsi i politici. Fa ridere vedere il sindaco (tra l’altro in gamba) della più moderna città italiana cacciare dalla Scala il maestro Gergiev, certo, un tipo duro e inespugnabile, un amico di Putin, ma un genio assoluto che, come ha scritto Repubblica, con il suo cipiglio feroce sembra proprio un folle di Dostoevskij, colmo di demoni e abbagliato da troppe notti bianche (l’artista “è” la sua opera, diceva Benedetto Croce, ma in Italia non esiste il pensiero liberale, così come non esistono i liberali). E fa ancora più ridere vedere i nostri politici, i nostri giovani leader, i nostri imberbi (anche se ormai hanno tutti 40 anni) statisti che, tolti dal loro universo parallelo popolato di selfie con la casalinga di Voghera, video con gli spaghetti al granciporro, ridicoli slogan, risibili parole d’ordine, arruffati apprezzamenti in tempi non sospetti della Russia, della Cina e della Corea del Nord - tutto vero! - e sbattuti nel calderone purulento e sanguinolento della realtà effettuale, sembrano dei pulcini nella stoppa, dei poveretti, degli scappati di casa, dei patetici fanfaroni – quali sono, in realtà - che farebbero meglio ad andare in ginocchio dalla Merkel e chiederle per pietà di mediare lei con i cattivoni che stanno fuori dalla porta di casa. E poi dicono che la gente non va più a votare…

Fanno ridere. Facciamo ridere. Questa è la verità. C’è la tragedia in atto e noi facciamo ridere, inabissati nella stupidità più assoluta con il rischio che prima o poi a qualche imbecille scappi la frizione o gli capiti di schiacciare il bottone sbagliato e che finisca tutto per davvero. Ma senza boati, effetti speciali o tragedie greche. Probabilmente per seppellirci basterà una risata. Dopo, non resterà che un silenzio di neve, una luna indifferente e una macchia di grasso sul terreno.

A quel punto, il buon Dio dovrà rimboccarsi le maniche e riprovare per l’ennesima volta a mettere insieme i pezzi del mondo sperando - povero illuso - che almeno a questo giro gli uomini gli riescano un po’ meno sciocchi…

© RIPRODUZIONE RISERVATA