Dura virus che Conte
resiste. Ma noi?

Se Albertone Sordi fosse ancora tra noi, forse si ispirerebbe alla realtà della politica per un remake riveduto e corretto del suo “Finché c’è guerra c’è speranza”. Al di là della quasi fatale omonimia della parola finale del titolo con il ministro della Salute, il protagonista della pellicola sul venditore di armi costretto a sperare nel perpetuarsi dei conflitti nel mondo per stare a galla e soddisfare le ingorde esigenze della famiglia potrebbe essere il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte. Quest’ultimo si appresta a chiedere, e ottenere (chi potrebbe dire di no almeno nella maggioranza?) al Parlamento la proroga dello stato di emergenza della pandemia fino al prossimo 31 gennaio: una cambiale per la sua permanenza a palazzo Chigi. Molti non saranno d’accordo, ma la gestione della lunga convivenza degli italiani con il Covid da parte del governo di Giuseppi è stata efficace. A dirlo, oltre che gli attestati di stima dall’estero che continuano a piovere sull’Italia, c’è anche la situazione negli altri paesi, compresa la vicina e presuntuosa Francia, molto peggiore della nostra. Non è scontato che oltre confine gli italiani non siano visti come i soliti inaffidabili “spaghetti, mandolino e baffo nero”. Ci sarà pur un perché se ancora si ricorda, a oltre 60 anni di distanza, il tempo in cui la nostra sgangherata liretta si aggiudicò l’Oscar delle monete.

Di tutto questo si sta giovando Conte, aiutato anche da qualche scivolone delle Regioni come quello sulla riapertura degli stadi e dell’andare in ordine sparso da parte di queste istituzioni che pure ha contribuito alla rielezione dei presidenti (tutti i ricandidati hanno ricevuto una nuova investitura dagli elettori). La verità però va detta. Al di là delle buone intenzioni espresse da Di Maio e Zingaretti e per lo più finalizzate proprio a imbrigliare il capo del governo, senza Covid questa maggioranza di fil di ferro e spago non avrebbe retto alle spallate dell’opposizione, che la stessa emergenza virus ha di molto depotenziato. Per informazioni citofonare Salvini, ovviamente muniti di contrappasso. Almeno Giorgia Meloni sta cercando di prenderla alla larga, la sua fresca incoronazione europea ne è la prova. Meglio posizionarsi e attendere tempi migliori, specie se l’amico-rivale interno si sta esponendo a una lenta cottura senza trovare il sistema per smorzare la fiammella.

Adesso però resta da capire, ed è una domanda delle 100 pistole, se il “primum vivere e deinde philosophari” sia davvero quello che ci vuole per un paese depresso non solo dal punto di vista economico e ancora non avvezzo alla convivenza pacifica con il nemico. Va bene che il poco meglio può essere preferibile al tanto peggio. Ma basterà? Secondo Confindustria, che pure in parte ha raffreddato le canne dell’artiglieria puntata contro il governo, no. Ci vuole un altro passo che consenta di varcare i confini di Sussidistan, hanno ammonito gli imprenditori seduti su un vulcanico autunno. Mica facile con una coalizione di questa guisa marchiata, almeno per quanto riguarda il principale azionista dal fallimentare reddito di cittadinanza.

Ecco perché Conte, forte del rinnovato stato di emergenza, è chiamato a sciogliere il nodo gordiano e andreottiano del tirare a campare che è sempre meglio che tirare le cuoia ma non aiuta l’Italia a mettere il naso fuori da una crisi che, con il prolungarsi della pandemia mondiale, rischia di dilatarsi in maniera letale. Servono quattrini da immettere in circolo ma in maniera virtuosa. Sul Recovery fund è il caso di chiarirsi bene le idee , per quanto riguarda il Mes occorre togliere la paglia da una parte anatomica poco nobile, per tacer della riforma fiscale appena abbozzata. Il vecchio detto meneghino “dura guerra che mi resisti” può andar bene al premier, ma non agli italiani.

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