Il calcio non è mai soltanto un gioco

Fra le tante cose stupide che sentono in giro, una delle più stupide è che il calcio sarebbe divertimento. Affermazione ridicola, tipica di chi non sa niente di calcio - e niente di sport in generale - e che ovviamente, non sapendo niente di calcio, parla sempre di calcio.

E quando, in occasione dei mondiali, riparte a reti unificate l’insopportabile, irritante e provincialissima retorica sul calcio come divertimento, il calcio giocato a ritmo di samba, il calcio danzato, il calcio svolazzante tutto sombreri, rulete, rabone e colpi di tacco, non può che sfociare e depositarsi sulla più vanagloriosa, arrogante e supponente squadra che il football mondiale abbia mai prodotto nella sua lunga storia. E cioè, come ovvio, il Brasile.

Ora, non è che sia colpa del Brasile in quanto tale né tanto meno dei brasiliani in quanto tali, che ne ha così vinte di coppe quella nazionale e sfornati di campioni e fuoriclasse di livello sublime che solo un pazzo potrebbe negarlo. Ma è la maschera che esibiscono a tirare gli schiaffi, questo approccio circense alla partita, questo teatrino così prevedibile e così stucchevole da rivelare immediatamente quanto sia posticcio, questo modo di fare da partitella tra amici sulle spiagge di Copacabana, da che bella la vita dove c’è il sole tutto l’anno (e poi di quanto sia bello vivere in Brasile tra Lula, Bolsonaro e altri demagoghi straccioni del genere poi magari ne riparliamo…) e dove si gioca e si ride, si palleggia e si ride, si tira un corner e si ride, (ma quando si tirano i rigori e arriva la tremarella, si ride un po’ meno…), si segna e si ride e si balla e si danza e “si regala gioia alla nostra gente” e si fa il passo del piccione e ci si ossigenano i capelli e alegria! alegria!! alegria!!! e non c’è verso di togliergliela dal muso quella maschera di allegria da carro di carnevale. Un circo talmente felliniano da far venire spontanea la domanda: ma che c’è tanto da ridere in una partita di calcio?

E non contenti, poi a un certo punto pregano. E prima di giocare pregano e dopo aver giocato pregano e mentre giocano pregano ed è tutto un appellarsi a santi e beati e cherubini e sarafini e madonnine infilzate, peggio che a una processione di qualche capoclan di Corleone, e segni della croce e rosari e orapronobis e tutto uno zufolio di paccottiglia kitsch che – per cortesia – ha ben poco ha a che fare con la fede e la religione, che per chi crede, ma soprattutto per chi non crede, sarebbe ancora una cosa seria.

E poi, alla fine, inesorabilmente, piangono. Perché finisce sempre così. Sono ormai vent’anni che ogni volta finisce così. Dopo aver svolazzato e sfarfalleggiato e palleggiato e maramaldeggiato e ballato e danzato e sghignazzato e pregato e tutto il resto del canovaccio che piace tanto allo spettatore medio che vive di banalità, di luoghi comuni e di incompetenza, alla fine arriva sempre qualcuno di feroce, scaltro e che sa perfettamente che inferno, che golgota, che via crucis sia una partita di calcio - altro che allegria e divertimento da quattro soldi - che li spedisce a casa a pedate nel sedere. E allora questi piangono. E piangono e piangono e piangono, generalmente a favore di telecamera, ma continuano a piangere. Il calciatore brasileiro, si sa, è di lacrima facile. Forse è per quello che piace così tanto alle nonne…

Il calcio è una discesa agli inferi, questa è la verità. Lo sport in assoluto è una discesa agli inferi. E’ tutto qui il suo fascino magnetico, insondabile, atavico. Non c’è giustizia lì in campo, né welfare, né pensierini da cioccolatino, da chierichetto, da mulino bianco. Ma solo masse muscolari, tecnica, fatica - la grande fatica esistenziale di resistere fino al novantesimo – e poi ferocia, lucidità, freddezza. E vendetta, rivalsa, potere. Sentire l’odore del sangue dell’avversario morente. E finirlo.

E’ una battaglia, innanzitutto con te stesso, una guerra che non fa prigionieri. Chi vince, prende tutto. Chi perde, perde tutto. Non c’è nessuno di più annichilito e azzerato e incenerito di quello che arriva secondo per tanto così, di chi perde la finalissima ai rigori, certo mille volte di più di chi viene buttato fuori ai gironi o che manco si qualifica, tipo i nostri fenomeni del campionato più scarso e più giudiziariamente sputtanato d’Europa. Questo è il calcio. Questo e soltanto questo. Il resto sono solo pagliacciate.

E poi è anche una questione di facce. Agli inni nazionali si era subito capito come sarebbe andata a finire. Da una parte, gli urticanti croati: grugni balcanici, occhi da guerra civile, nasi sbeccati. La ciurma di un cargo. Dall’altra, i vanesi verdeoro: tatuaggi modaioli, criniere impomatate, musetti da selfie. Ragazzini all’apericena in terrazza. E infatti…

Che retorica, il calcio bailado. Che prodotto scadente e ridicolo da vendere sul mercato pubblicitario, al generone indifferenziato che si stravacca con i popcorn sul divano. Che bidone assoluto Neymar, simbolo dei giocolieri da circo, dei sopravvalutati perdenti, dei re del pugno di mosche, dei principi della fuffa social e per il quale da anni si sperticano di elogi e superlativi i cosiddetti giornalisti sportivi - nota sottocategoria di una categoria che è già di suo una sottocategoria - e tutti quelli con l’anello al naso e tutti i seguaci del politicamente corretto e tutti i servi del regime conformista pallonaro che si sdilinquiscono e si srotolano e si azzerbinano (chissà perché?) sul Brasile a livello mondiale, sul Real Madrid a livello europeo e su quella squadra di cui sfugge curiosamente il nome a livello italiano. Che pena.

Infine, a chiudere, ci sarebbe da fare una lunga riflessione sul perché le donne tifino tutte (o quasi) il Brasile e le altre due squadre sopracitate. Però è un discorso che ci porterebbe lontano e prevederebbe da parte di chi scrive un grande coraggio. Ma il coraggio, come diceva quel tale delle sue parti, uno non se lo può dare e quindi è meglio guardarsi in silenzio Argentina-Croazia…

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