Il nuovo razzismo
degli “anti razzisti”

Ogni tanto antirazzismo fa rima con cretinismo. Nei giorni scorsi, mentre ce ne stavamo tutti avvoltolati nelle ennesime e angoscianti peregrinazioni del Covid, ci siamo persi una notizia - molto più grave della pandemia - che la dice lunga su quanto la società occidentale sia completamente allo sbando.

Ricordate Amanda Gorman, la giovane poetessa di colore che è diventata famosa in tutto il mondo per aver recitato i suoi versi durante la cerimonia di inaugurazione della presidenza Biden? Bene, da quel giorno gli editori di mezzo mondo si contendono la sua opera “The hill we climb”. E fin qui, niente di straordinario, è ovvio che una tale mostruosa visibilità mediatica porti a un conseguente successo commerciale, ma, sostanzialmente, chissenefrega, mica stiamo parlando di Saffo, Sylvia Plath o Emily Dikinson. Il dato emblematico, e davvero pericolosissimo, invece, è un altro: la selezione razziale operata sui suoi traduttori.

Il primo caso è avvenuto in Spagna. Un editore catalano ha dato l’incarico di lavorare sul poema della Gorman a Victor Obiols, referenziatissimo professionista già traduttore di Shakespeare e Oscar Wilde, tanto per citare due autori minori, ma una volta che l’incarico era già stato concluso e pagato la casa editrice ha bloccato tutto e cestinato il dattiloscritto. Dagli Stati Uniti era arrivata la sentenza che a Obiols mancano i requisiti essenziali per tradurre la nuova stella della lirica mondiale: è un uomo, è bianco, non è più giovane, è etero ed è pure catalano. E dire che lui di discriminazione se ne intende: la sua lingua era stata praticamente estirpata dalla dittatura franchista-madrilena. Macché. Niente da fare. Un po’ meglio è andata alla traduttrice olandese, Marieke Lucas Rijneveld, giovane ma dal robusto curriculum - ha vinto autorevoli premi letterari in lingua inglese - donna, impegnata e pure, come si dice, “trans friendly”, anche perché oggi come oggi in certi ambienti se non sei “fluido” manco ti rispondono al citofono. Un profilo praticamente perfetto, che però si è arenato su una colpa davvero imperdonabile, il suo vero peccato originale. È bianca. E quindi, addio alla tanto agognata traduzione pure per lei. In Francia, invece, dove se la tirano da gran furboni, si sono subito allineati al nuovo verbo, affidando l’incarico alla ventenne belga di origini congolesi Marie-Pierra Kakoma. Tutto vero.

E avreste dovuto leggere le motivazioni imbarazzate, penose, tartufesche e tutte sfarfalleggianti di “necessità di inclusione” e di “sensibilità verso i lettori” nel motivare un rifiuto del tutto privo di senso. Ora, è vero che uno può scegliersi il traduttore che preferisce e che il bello della libertà sta anche nell’essere liberi di essere degli idioti e di comportarsi come tali e poi, ribadiamolo ancora una volta, stiamo pur sempre parlando di Amanda Gorman, non della Cvetaeva o della Szymborska. Ma è evidente che a nessuno sfugge la deriva diabolica che sottende a questa notizia e a strati sempre più larghi della nuova cultura, della nuova sensibilità, della nuova antropologia e che prevede proprio questo: il rifiuto della storia, il rifiuto della differenza, il rifiuto, soprattutto, della competenza specifica, perché solo e soltanto il clan ha valore, solo la tribù, solo il maso chiuso, solo l’appartenenza, solo l’identità genetica, sessuale - anzi, la non identità sessuale - razziale e comportamentale. Cioè, un nuovo razzismo. A razzismo, razzismo e mezzo, tanto per chiudere il cerchio.

Questa sì che è la vera pandemia, altro che il virus, perché da un’emergenza sanitaria, per quanto mondiale e devastante, prima o poi si esce, e non si può non uscirne. Dal piano inclinato del mono pensiero salamistro, invece, - da notare, a tal proposito, l’assordante silenzio della Gorman sulla vicenda - si rischia di finire dentro la botola tombale del conformismo, del politicamente corretto, del fariseismo assoluto che porta a esiti ridicoli, oltre che grotteschi: Pasolini, Proust e Gide li possono tradurre solo i gay, Balzac solo i puttanieri, Omero solo i greci, Leopardi solo quelli con la gobba, Pavese solo gli aspiranti suicidi, Céline solo gli antisemiti, Malaparte solo i fascisti e/o comunisti. Senza dimenticare altre spassosissime trovate, tipo film hollywoodiani ambientati nel Seicento francese, con tanto di nobili di colore alla corte del Re Sole, perché pure lì bisogna rispettare le quote del nuovo manuale Cencelli, facendo ammazzare dalle risate gli spettatori che non hanno ancora mandato il cervello all’ammasso.

Ci si trova tra di noi, ci si parla tra di noi, ci si invita a cena tra di noi, si vive tra di noi, ci si traduce tra di noi, non c’è confronto, non c’è scontro, non c’è dialettica, non c’è sfida, un unico pensiero orwelliano che via via sgorga e gorgoglia ed esonda sui media - sempre pronti a farsi ventriloqui dei padroni del vapore - proprio da parte di quelli che tanto hanno combattuto per la parità e l’uguaglianza - pensate all’eroismo delle prime lotte femministe confrontato con le pagliacciate delle quote rosa - ma che, una volta ottenute la parità e l’uguaglianza, le intendono solo come parità e uguaglianza per loro, cercando di ripagare con la stessa moneta quelli che per secoli li hanno schiacciati ed emarginati. E quindi diventando esattamente come loro, esattamente come quelli che avevano sempre combattuto. La fattoria degli animali, appunto.

Si arriva a questo, al dogmatismo, alla dittatura tanto omeopatica quanto inscalfibile, quando si cerca la purezza a ogni costo e al contempo, proprio per questo motivo, si prepara la propria catastrofe. Perché non bisognerebbe mai dimenticarsi di quel memorabile aforisma di Nenni - a proposito, ci vorrebbe un anziano socialista per tradurlo in americano - che ai moralisti tutti d’un pezzo ricordava sempre che quando ci si mette a fare la gara a chi è più puro, alla fine arriva uno più puro che ti epura. Ci sarà sempre qualcuno di più nero di Amanda Gorman.

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