
Una trentina di anni fa Umberto Eco ha sviluppato in un breve saggio il concetto dell’eternità del fascismo, fenomeno culturale e antropologico che va ben al di là della mera durata della dittatura mussoliniana.
Ma si sbagliava. Perché la vera cifra dell’Italia del Novecento, per quanto possa apparire grottesco, quella che permea in maniera profondissima la nostra visione del mondo, non è tanto il fascismo - nato nel 1922 e morto per sempre nel 1945 - ma il sessantottismo. E’ quella la bestia grama che non scompare mai, affonda le sue radici profondissime nel nostro inconscio e appena si presenta l’occasione riemerge in superficie, confermando la consolidata teoria marxiana secondo la quale i fenomeni storici si ripetono sempre due volte: la prima come tragedia, la seconda come farsa.
Questo spassoso fenomeno di costume è tornato di attualità nei giorni scorsi durante le prove orali degli esami di maturità quando tre studenti veneti hanno rifiutato di rispondere alle domande dei professori ostentando la loro scelta rivoluzionaria di fare scena muta. Indimenticabili le motivazioni a supporto di una decisione così dirimente: questa scuola non ci piace, manca l’empatia con gli insegnanti, c’è troppa competizione, un modello iper selettivo e meritocratico che risulta psicologicamente devastante per i giovani di oggi. Insomma, alla scuola interessano solo i voti, non i ragazzi come persone con tutte le loro fragilità. Le stesse identiche fregnacce che dicevano i loro avi mezzo secolo fa.
Ora, le considerazioni che si possono fare in attesa del dilagare del fenomeno emulativo così tipico di quella età - nell’Ottocento i giovani si suicidavano per amore imitando il Werther, oggi chiedono su Instagram che la scuola diventi una seconda Asl - si possono fare alcune considerazioni. In un paese serio - visto che i dati Invalsi testimoniano che in vaste aree d’Italia la metà dei candidati non è in grado di leggere, scrivere e far di conto e nonostante questo l’esame di Stato viene superato dal 99% di loro - i ragazzi di cui sopra sarebbero stati presi a pedate nel sedere e rispediti a casa con la certificazione di dover rifare la maturità l’anno dopo e una volta a casa i genitori gli avrebbero dato il resto. Ma questo in un paese serio, mica nella nostra repubblica delle banane, nella quale infatti ai meglio tromboni del giornalismo sinistroide non è sembrato vero concionare su quanto è dura la vita dello studente al giorno d’oggi, signora mia, e quanto ignobile questo sistema oppressivo che avvilisce i talenti e non rispetta le sensibilità.
Ma la cosa più spassosa non è neppure questa. La cosa che fa ammazzare dalle risate è l’accusa - molto tenace, molto seriosa: gli studenti ne sono veramente convinti - che nella scuola italiana viga un modello insopportabilmente competitivo. In Italia. Nella scuola italiana. Davvero. Lo hanno detto davvero. In Italia, nella scuola italiana, c’è competizione, che in confronto la Thatcher era una mammoletta. E uno legge. Poi rilegge. Poi rilegge per una terza volta. E poi inizia a ridere. E ride e ride e ride. E va avanti a ridere al pensiero della competizione in Italia, il paese delle famiglie, del familismo amorale, del mi manda Picone, del me lo segnala il sottosegretario, dell’amichetta dell’assessore, del figlio dell’avvocato, degli amici, degli amici degli amici, dell’aiutino, del compitino, dell’esamino, delle spintarelle, dei bravi ragazzi, del dottore è fuori stanza, del Sessantotto - eccoci al punto! – dell’eterno Sessantotto, del sei politico, del diciotto politico, degli esami di gruppo, degli aumenti a pioggia per tutti, delle sanatorie, delle pensioni, delle prepensioni, delle corporazioni, delle cooptazioni, dei concorsi truccati, dei distacchi sindacali, dei baroni, dei lei non sa chi sono io, del posto fisso, dei Checco Zalone, degli Alberto Sordi, dei cerchi magici, dei compagni di merende, dei furbetti del quartierino e tutto il resto della comica saga italiota che si basa su tutto, su tutto davvero, fuorché sulla competizione.
E una volta finito di sghignazzare - che tenerezza, però: in fondo, sono ragazzi - ti viene da pensare a quanto sia davvero eterno il sessantottismo in questo strampalato paese che è sì un concetto di sinistra, ma pure di destra, perché è il vero minimo comun denominatore delle macchiette che siamo, che a sentire lo studente padovano dare del “violento” al ministro per la minaccia di bocciatura viene in mente il memorabile dialogo di “Un Sacco bello” tra Carlo Verdone in versione figlio dei fiori e Mario Brega o Nanni Moretti in “Ecce bombo” durante la seduta di autocoscienza con il trockista impiegato al Catasto. E ti vengono in mente non i genitori di questi ragazzi, ma i loro nonni, che ai tempi d’oro della contestazione dicevano le stesse identiche scemenze sul sistema, sull’autoritarismo, sui poteri forti, sulle multinazionali con l’aggravante che questi (alcuni di questi) poi andavano in giro a sfasciare le vetrine e a sparare ai poliziotti, mentre i loro nipoti, per fortuna, si limitano a piagnucolare su Tik Tok, a guardarsi otto ore di manga e ad affliggersi sul riscaldamento globale.
Ma non è finita qui. Perché la cosa ancora più grottesca è che molto spesso sessantottismo fa rima con paraculismo. E così come tanti di quei piccoli Che Guevara che da giovani organizzavano la rivoluzione proletaria nella villa del papà in Sardegna sono poi finiti nel Psi, in Forza Italia o a Mediaset – che pedagogica palinodia - così i tre studenti hanno rifiutato di fare l’esame orale quando erano già certi di essere promossi, visto che avevano in tasca i crediti minimi richiesti. Dei veri intrepidi, niente da dire, dei veri arditi, dei veri dannunziani. A ennesima conferma, come diceva quel genio di Longanesi, che gli italiani sono talmente cialtroni da voler fare la rivoluzione con il permesso dei carabinieri. O come sosteneva Flaiano, che era un genio pure lui, che gli italiani vogliono la rivoluzione, ma preferiscono fare le barricate con i mobili degli altri.
@DiegoMinonzio
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