Magic bus: la lezione
terribile della natura

E così, adesso il Magic Bus non c’è più. Un paio di giorni fa un elicottero della Guardia nazionale dell’Alaska ha rimosso dalla foresta il pullman - reso celebre dal bestseller “Into the Wild” del giornalista Jon Krakauer e ancora di più dal film omonimo di Sean Penn - nel quale ha trovato la morte nell’agosto del 1992 un giovane americano, Christopher McCandless, passato, a sua insaputa, alla storia del costume dei nostri tempi.

Una decisione inevitabile, quella dei militari americani, viste le sempre più frequenti, e onerose, operazioni di soccorso per salvare la vita a frotte di ragazzi che da tutto il mondo venivano in pellegrinaggio in quel luogo pericolosissimo spinti dal sogno di passare almeno una notte dentro quel torpedone anni Cinquanta dove aveva vissuto per quattro mesi ed era morto il loro eroe anticonformista. In effetti, la storia di questo ventiquattrenne di buona famiglia, studente eccellente e grande sportivo, che si laurea a pieni voti, ma all’improvviso dona tutti i suoi soldi a un’organizzazione di volontariato, abbandona l’auto, brucia gli ultimi dollari rimasti e si mette a girovagare per due anni negli Stati Uniti in autostop, a fare l’hippy fuori tempo massimo e a cercare la verità ultima delle cose nella Natura, negli spazi incontaminati, nelle terre selvagge, appunto, è davvero affascinante. La società lo disgusta, i soldi lo disgustano, la carriera lo disgusta, le convenzioni familiari e professionali lo disgustano, vede in tutte queste sovrastrutture solo finzione, menzogna, esistenze non autentiche e cerca quindi una risposta prima nel deserto del Nevada, poi nel Grand Canyon e infine in Alaska.

C’è tutta una cultura dietro l’esperienza di vita di Christopher, di certo la grande presenza immanente della natura che fa parte dell’immaginario collettivo degli americani, della loro storia, tanto Jack London, ma anche tanto Thoreau, sicuramente l’ascetismo di Tolstoj, accompagnato da una fortissima vena anticapitalistica proprio negli anni di boom economico e di imminente esplosione della Silicon Valley che avrebbero segnato la presidenza Clinton, la guerra guerreggiata contro il padre self-made man milionario - un classico - e chissà quante altre cose ancora. Tutto questo emerge con evidenza nel libro e nel film, corredato da una magnifica colonna sonora, soprattutto nella canzone di Eddie Vedder che accompagna l’ultima scena, senza però riuscire mai a togliere l’impressione di aver a che fare con un’esperienza di vita idillica, irrealistica e manichea, per quanto grandiosa e affascinante. Perché se è vero che la vicenda di questo ragazzo suscita forti emozioni - chi non ha rifiutato il mondo e sognato di rifarlo da capo a piedi almeno una volta nella vita, vuol dire che non è mai nato - d’altra parte è anche sottilmente irritante. C’è tutto un sottotraccia di narcisismo, di arroganza intellettuale e, soprattutto, di imperdonabile infantilismo nella volontà pervicace di non vedere la realtà qual è, ma di immaginarsela esattamente come elaborata dai propri sogni. E fra le illusioni più cocenti e devastanti e mortali, appunto, la più devastante è quella di credere che la Natura sia buona, sia materna, sia accogliente e che lì e solo lì un uomo riesca a realizzare pienamente se stesso.

Ragazzino. La Natura è terribile. Spietata. Feroce. La natura non regala neanche un’oncia di spazio a chi non ce la fa, al debole, allo storpio, all’inerme, quello viene spazzato via in un secondo dalla legge del più forte, dalla legge della sopravvivenza, dalla legge dell’adattamento. Nessuno cura il malato. Il malato muore. È questo il welfare della Natura. E infatti, la Natura ha preso Christopher, lo ha masticato, esattamente come lui ha masticato quelle bacche velenose che, assieme alla fame, lo avrebbero ucciso, ha gonfiato le acque del fiume Teklanika impedendogli di scappare e l’ha lasciato lì a decomporsi per qualche settimana prima di essere trovato dentro il bus da un cacciatore d’alci. La Natura, con le sue terre selvagge, se ne frega di te e dei tuoi sogni e della tua vendetta contro il padre e della tua critica alle multinazionali e ai poteri forti e della tua inesausta e commovente ricerca della felicità. La Natura ti uccide e poi di passa sopra e poi ti dimentica, perché la Natura è soprattutto una cosa. Indifferente.

Un uomo nella pura Natura muore, questa è la verità. E muore subito, giovane, tra gli stenti e il dolore e la solitudine, perché l’uomo nelle terre selvagge muore solo. Cosa c’è di così bello, di così poetico, di così edificante in un terremoto, in una tempesta, in un’inondazione? Un accidenti di niente. Eppure anche questa è Natura, no? Non l’abbiamo forse visto in questi mesi che cos’è la Natura? Il Covid non arriva forse anche lui dalla Natura, dagli spazi estremi, dalle terre selvagge? E cosa fa la Natura? Ammazza tutti quelli che gli capitano a tiro e screma tutti i vecchi, tutti i patologici, tutti i deboli, tutti gli indifesi ed è solo grazie alla schifosissima civiltà degli schifosissimi uomini che ci sono gli ospedali e le terapie intensive e gli antibiotici e tutto il resto che serve a proteggerti da lei. La Natura non è il laghetto dietro casa, o il giardino con i giochi per i bambini o la scampagnata fuori porta o Diletta Leotta che si fa i selfie in Grigna per la gioia di noi patetici guardoni. La Natura è una cosa tremenda, impietosa, crudele, da guardare con ammirazione per la sua bellezza incomparabile - mai stato tanto luminosa e magnificente come nei giorni del lockdown – ma, come l’amigdala ci suggerisce da millenni, con sana e pedagogica paura.

Quello che non aveva capito Christopher McCandless è che la tua partita te la devi giocare qui, con i luridi e ignobili e pusillanimi e deludenti esseri umani. Èqui il campo di gioco, è qui dove devi conquistarti - con fatica terribile - ogni oncia di libertà, di dignità, di rispetto. Scappare non serve a niente. Il Magic Bus non porta da nessuna parte.

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