Murgia e la storia di un falso culturale

La morte ci fa paura perché è il nostro domani, il nostro futuro, il nostro destino. Chiunque tu sia, qualunque cosa tu abbia fatto, a un certo punto tutto finisce, quattro palate di terra e te ne torni alla casa del Padre. Oppure sparisci nel gorgo insensato della materia. Fra qualche tempo lo scopriremo.

È uno iato, una cesura, il punto oltre il quale di quella persona non si può più aggiungere nulla, perché è proprio dentro quel perimetro che è definita. E quando la morte tocca un personaggio pubblico, l’unica cosa giusta da fare - al di là del rispetto e del silenzio dovuti al mistero insondabile della morte - è quello di essere onesti. E di dire le cose come stanno o, almeno, come si pensa che stiano, senza che quell’evento inquini il giudizio oggettivo sulla persona e l’opera.

È difficile, sotto la spinta delle emozioni, della sorpresa, del dolore. Basti pensare alla recente scomparsa di un peso massimo come Berlusconi. Ed è difficile anche per un personaggio del tutto diverso, ma quasi altrettanto divisivo come Michela Murgia, la cui tragica fine ha creato un flusso emotivo da una parte comprensibile, ma dall’altra destinato a deragliare in analisi totalmente fuorvianti che alla fine le rendono un pessimo servizio, trasformandola in un’icona da rotocalco come Che Guevara o Lady D.

Da un punto di vista letterario, ad esempio, c’è poco da dire. Nel senso vero e proprio che c’è davvero ben poco da dire. Il livello è di evidente mediocrità di scrittura e di contenuti, dei quali quindi tra breve rimarrà poco o niente. Ma in fondo, quale libro è destinato a durare se anche Céline in un’intervista degli anni Cinquanta si diceva certo, con il suo feroce umorismo, che anche “Viaggio al termine della notte” e “Morte a credito” sarebbero morti, e presto: “Tanto i posteri saranno i cinesi e quelli se ne fregheranno altamente della mia letteratura fessa, del mio stile a vacca e dei miei tre puntini”. E se un giorno non rimarrà niente di Céline - che era Dio… - figuratevi della Murgia. E di tutti quelli che, come lei, pensano che la letteratura sia equivalente di impegno civico, riscatto sociale, che la letteratura sia denuncia e pedagogia ed esempio e serva a scuotere gli animi e a rendere migliori le persone e a cambiare il mondo. Ridicolo. La letteratura non serve a niente. Non migliora, non insegna, non eleva, non instilla nobili sentimenti né bontà pane burro e zucchero. Quando ti accadono le cose tremende della vita, quella vera – che inizia quando hai chiuso il libro - è inutile che ti rivolgi ai romanzieri, agli artisti, ai musicisti perché da loro non riceverai alcuna risposta. Tema devastante e profondissimo sul quale Thomas Bernhard, forse il più grande autore europeo del secondo Novecento, ha scritto in “Antichi maestri” pagine indimenticabili. La letteratura non serve. La letteratura “è”.

Ma la cosa più grave non è neppure questa. La vera falsificazione popolare ai danni della scrittrice sarda è dipingerla come un’intellettuale di riferimento, un’intellettuale anti sistema, insomma, il prototipo di intellettuale 4.0 capace di formare le nuove generazioni contro la dittatura globale, un po’ come Sciascia e Pasolini ai tempi d’oro. E a questo proposito, qualche giorno fa La Stampa ha pubblicato un assurdo, imbarazzante e, purtroppo, a tratti spassoso parallelo tra la Murgia e Pasolini. Il punto di caduta è innanzitutto che lei non era un’intellettuale, ma un’influencer, e soprattutto che non era affatto un’anticonformista, avendo invece rappresentato con piena coerenza tutti, ma proprio tutti, ma dico tutti, i temi più mainstream, più modaioli, più salottieri dell’ultimo ventennio di dibattitto editoriale e giornalistico, riassunti nella solita culturetta della solita parrocchietta dei soliti amichetti del pensiero unico terrazzista antropologicamente superiore che infesta convegni, case editrici, premi letterari, pagine culturali, talk show e, soprattutto, profili social di ogni ordine e grado. Anticonformismo de che?

L’antifascismo della Murgia è conformista, la sua analisi di uno dei fenomeni più complessi del Novecento, con tanto di “fascistometro” grazie al quale si fa l’analisi del sangue a chi può parlare e chi no è, con tutto il rispetto, una cosa grottesca, il solito antifascismo moralistico che fa ridere chiunque abbia una minima conoscenza della materia, il tipico “fascismo di sinistra” sul quale Pasolini ha scritto parole di fuoco, perché era proprio nel “fascismo degli antifascisti” che coglieva uno dei cardini della nuova omologazione. L’antimilitarismo spocchioso della Murgia - “quando vedo un uomo in divisa mi spavento sempre” – è conformista e fa a pugni con l’ode ai poliziotti morti di fame di Pasolini. L’abortismo spinto della Murgia è conformista e dimentica che Pasolini era “contrario alla legalizzazione dell’aborto perché la considero una legalizzazione dell’omicidio”. Il femminismo della Murgia è conformista mentre Pasolini detestava il femminismo e di certo la famiglia “queer” l’avrebbe buttata giù dalle scale assieme alle nozze gay e ai diritti Lgbt, perché lui era - culturalmente - un “reazionario” che avrebbe riportato indietro il carro della storia alle sue radici premoderne. Altro che la “schwa”. La stessa cristianità della Murgia è conformista se paragonata alla violenza, al sangue e allo scandalo che impregnano i capolavori di cattolici terribili come Testori e Flannery O’Connor, che la Medusa l’hanno guardata fissa negli occhi.

Cosa vuole dire tutto questo? Vuol dire che la Murgia è uno dei tanti prodotti della cultura rastremata della doglianza. Perché nella repubblica delle banane non vogliamo grandi scrittori, ma santini laici che esibiscano - a favore di telecamera - vite esemplari, prediche social, libretti più da sventolare che da leggere, denunce dei mali del mondo, roghi dei cattivi e dei cattivoni, testimonianze lacrimose. L’opera non conta, non serve. È la vita impegnata che detta l’agenda. La povera Murgia è solo l’ultima della lista.

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