Non lasciamo morire
Il nostro lago ferito

Correva l’anno 2007 (quasi tre lustri fa, passa il tempo), quando il nostro giornale lanciò l’inchiesta sul “lago ferito”. Decine di pagine ispirate dalla lettera di una turista straniera che, tornando sul Lario dopo anni, aveva trovato il paesaggio irriconoscibile per le tante nuove costruzioni sorte un po’ dappertutto.

All’epoca Greta Thunberg, la giovanissima simbolo degli attivisti che denunciano l’emergenza climatica, aveva soltanto quattro anni. Era nata giusto in quel 2003 che fu l’anno della prima estate di caldo record percepita sulla pelle, umida, dei cittadini. Ancora qualche anno indietro - anzi, in un altro secolo, nel 1998 - a seguito di una devastante alluvione che all’epoca colpì l’Alto Lago, un prefetto che non badava troppo al protocollo, Efisio Orrù, sardo rimasto sul Lario poco ma abbastanza per averne a cuore le sorti, di fronte all’allora sottosegretario alla Protezione civile, Franco Barberi, verde e geologo, si premurò di comunicare che i problemi da queste parti andavano oltre l’emergenza di quel momento. L’esponente del governo prese atto e poi ripartì con un elicottero non dissimile da quello decollato da Saigon con gli ultimi americani, che in Vietnam non avrebbero più fatto ritorno.

Insomma, per non farla troppo lunga, sul disastro di questi giorni sarebbe il caso di porsi qualche domanda: non da esperti, ma davvero da uomini della strada. Perché, anche in occasione di questo disastro, abbiamo appreso che sulle zone martoriate è caduta una quantità inverosimile di pioggia, in poche ore la stessa che di norma arriva in una quindicina di giorni.

Ed ecco il primo quesito. Quante volte ci hanno inzubito questa spiegazione? Quanti piatti bisogna mangiare prima di capire che è minestra? Da anni le nostre estati, ma pure le primavere e gli autunni, sono segnate da questi fenomeni monsonici. Con buona pace di coloro che, causa interessi forti da difendere, negano l’evidenza per cui il clima è un tema forse neppure più urgente ma addirittura superato, perché ormai insanabile: colpevolmente. Pensate un po’: ieri è stato il giorno in cui il nostro pianeta ha consumato la scorta di risorse disponibili. Si chiama “Earth overshoot day” e ogni anno arriva sempre un po’ prima. Nel 1970 la giornata era caduta il 29 dicembre. Cinquant’anni dopo, nel 2020, la data è stata quella del 22 agosto. Anche qui, ogni volta è un grande magazzino che si riempie di vesti stracciate. Come le solenni conferenze internazionali sui cambiamenti climatici, che appaiono come tante stalle blindate quando i buoi sono un lontano ricordo.

Insomma: con questa realtà fatta di flora e fauna che continuano a cambiare, del celebre - un tempo - confine alimentare del burro che si sposta sempre più a nord come le coltivazioni di ulivi e agrumi, dovremo imparare a conviverci per un bel po’. E qui sorge la seconda domanda: ne siamo consapevoli? Adeguiamo i nostri stili di vita e le nostre abitudini a essa? Alla luce di quanto visto sul lago in questi giorni sembrerebbe di no. Speriamo di sbagliarci. Ma non è che stiamo continuando a programmare l’utilizzo del suolo e le edificazioni come se clima e ambiente fossero gli stessi di mezzo secolo fa, quando la dispensa del pianeta si svuotava a fine anno? Chissà. Però, se così non fosse, perché abbiamo assistito allo scempio di montagne e colline che scendono a valle spinte dai corsi d’acqua e fanno strame di tutto ciò che trovano sulla loro strada? Se da un lato, purtroppo, a Brienno come ad Argegno, come a Sala Comacina, le frane hanno acquisito il diritto di cittadinanza, dall’altro non c’è un cernobbiese che ricordi un simile disastro in quel comune, che anche di recente aveva avuto a che fare con gli smottamenti nella frazione di Rovenna.

Se andate a rileggervi l’inchiesta sul “lago ferito” incontrerete sciami di amministratori, esperti, dotti medici e sapienti che prendono atto con dolore della nostra realtà e si impegnano, giurando sugli antenati fino alla quinta generazione, a invertire la tendenza. Eppure, se la signora che ha dato vita a quel lavoro giornalistico tornasse sul lago a distanza di 14 anni, troverebbe la situazione addirittura peggiorata. E, con ogni probabilità, neppure si prenderebbe la briga di riscrivere al giornale. Certo il turismo, con la crescita tumultuosa degli ultimi anni da queste parti, ha le sue esigenze in termini di strutture e infrastrutture. Ma visto che ci riempiamo la bocca con il termine sostenibilità, che è molto trendy di questi tempi, magari cerchiamo anche di applicarla, nel rispetto del territorio e dalla sua morfologia. Una volta rimosse le macerie e ricostruito quel che c’è da rimettere in piedi, non si può tornare come prima. Il lago è ferito, non facciamolo morire.

© RIPRODUZIONE RISERVATA