Non temere il Morisi in sé
ma quello che c’è in te

Grazie al memorabile aforisma “non temo Berlusconi in sé, temo Berlusconi in me”, Giorgio Gaber - che era un genio - ha coniato una delle analisi più profonde, tragiche e implacabili dell’animo umano.

Naturalmente, era una valutazione del tutto militante, che individuava nel Cavaliere la metafora del male, ma questa è la parte meno significativa della faccenda: le visioni del mondo, quali che siano, sono sempre sacre, si può togliere Berlusconi e mettere Prodi, mettere Meloni e togliere Letta o chi volete voi, non è importante, visto che nessuna persona seria giudica gli altri sulla base se siano di destra o di sinistra, ma solo se siano cretini o intelligenti. Il punto dirimente, l’acutezza acuta e acuminata della riflessione di Gaber, stava tutta nell’aver capito quanto quel modo di fare impresa e di fare politica, anzi, quel modo di essere, per lui così detestabile, fosse in fondo anche un po’ parte di sé e quanto fosse stupido pensare di essere migliori degli altri, e di quello lì in particolare, perché lui migliore non era e perché aveva capito perfettamente che laggiù in fondo, imprigionato e cloroformizzato dall’educazione, dagli studi, dalle convenzioni e dall’ipocrisia c’era il demonio, che grattava e soffiava e ringhiava e che sarebbe bastato un attimo per farlo sgattaiolare fuori dalla sua gabbia di perbenismo. Anche Gaber poteva diventare come Berlusconi. Anzi, anche Gaber, nel profondo dell’anima, era Berlusconi.

Questa strepitosa disamina psicologica e sociologica dell’italiano medio, e più in generale dell’essere umano, impartita da questo grande intellettuale che, come tutti i grandi intellettuali, quelli veri, non è mai andato a trombonare sui magazine o ad azzuffarsi in tivù spinto da un ridicolo narcisismo piccolo borghese, torna utile nel bel mezzo dello scandalo Morisi. Al netto dell’intricata, sordida e assai sospetta vicenda di cronaca, che tanfa di trappolone lontano un miglio, la notizia in quanto tale è oggettivamente strepitosa perché, dentro una nemesi letteraria, becca con il sorcio in bocca non tanto una persona, della quale importa ben poco, quanto un modo di interpretare la politica e la comunicazione che ha dettato la linea in questi anni. Ci sono davvero tutti gli elementi per una sequenza di un film dei Coen, con tratti sconci e grotteschi, la droga, gli escort gay, gli immigrati, i festini e tutta una scenografia che fa a pezzi la retorica maschilista, machista e sessista che ha corroborato l’immaginario collettivo di quel partito e che rende addirittura iconica, nella sua intollerabile brutalità e volgarità la profezia lanciata in tempi non sospetti - correva l’anno del Signore 2006 - da un celodurista doc come Roberto Calderoli: “La civiltà gay sta trasformando la Padania in un ricettacolo di culattoni. Qui rischiamo di diventare un popolo di ricchioni”. Ignobile. Illuminante. Fine di un mondo.

Ed è stato un attimo. Appena Salvini ha accennato una difesa d’ufficio di Morisi, accusando di sciacallaggio gli avversari politici che iniziavano a sguazzare nella vicenda, sono tornate alla memoria le campagne più truci, truculente, sbavanti e sputacchianti della cosiddetta Bestia, la macchina di comunicazione creata dal guru, capace di fare carne di porco di ogni garanzia, di ogni privacy, di ogni tutela di deboli, inermi e minori e che tanto ha contribuito ai successi elettorali e digitali del Capitano. A parere di chi scrive, un modo di fare informazione che fa schifo, che fa ribrezzo, che fa vomitare, tanto per esser chiari.

Ma sarebbe troppo semplice chiuderla qui. Quelli sono i cattivi, quelli sono i maiali, quelli sono i mascalzoni, che ora stanno pagando con la giusta moneta mentre finalmente può riemergere il mondo della purezza, del rispetto e della solidarietà. E invece non è così. Non è così affatto. E chiunque in questi anni luridi e fanghigliosi non abbia mandato il cervello all’ammasso, possiede certamente la lucidità per capire quanta fogna ribolla dentro di sé e che quindi non deve avere paura “di Morisi in sé, ma di Morisi in me”. Crediamo davvero che di Bestia ce ne sia una sola? Certo, questa è innovativa e a suo modo geniale, ma di sicuro non è l’unica. E non è neanche la prima, né tanto meno sarà l’ultima. Di campagne vergognose e demagogiche e straccione tese a vellicare la panza della cosiddetta “gente”, che chissà come mai pare debba aver sempre ragione, ne abbiamo viste tante e tante, e mai così tante come da Tangentopoli in avanti – chissà perché? – tutte gorgoglianti di palate di guano e di processi in piazza e di gente ammanettata da esibire sotto i riflettori e di Enzo Tortora e di liquami nel ventilatore e di culture del sospetto e di maldicenze e tartufismi e fariseismi e filisteismi. Un’abbuffata di schifezze da far venire la nausea, solo che quelle andavano bene a tutti perché non le firmava una macchina social di un partito schiumante e ululante, ma magari qualche cacheroso talk show “de sinistra” o qualche giornalone secolare che fa tanto fine avere in salotto ma che, invece, a fare carne di porco della verità e a fare il servo dei soliti potentati non prende lezioni da nessuno. Altro che Morisi.

E il fatto ancora più profondo e sinistro non è tanto che ogni partito, ogni corporazione, ogni casta, ogni Masaniello ha avuto - e ha, e avrà - la sua Bestia, quanto il fatto che noi, noi tutti, noi popolo bue, ci indigniamo per la Bestia altrui, ma godiamo e sghignazziamo e ci sollazziamo per la Bestia nostra, che vedere i nemici prostrati, offesi e vilipesi - anche quando sono innocenti, soprattutto quando sono innocenti - in fondo, ci procura una grande goduria belluina. La Bestia avrà sempre successo perché è un grande album di famiglia, un grande richiamo della foresta, una grande epifania e perché il calcio dell’asino, quello che i vigliacchi tirano ai moribondi, è iscritto nel più immortale codice genetico degli esseri umani.

La Bestia siamo noi. Eh sì, è brutto scoprire chi sei veramente…

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