Par condicio giornalisti: l’ultima dal circo

Levategli il fiasco. Tra le notizie più spassose della settimana c’è la richiesta di Maria Elena Boschi alla commissione vigilanza dei servizi televisivi di applicare la par condicio non solo ai politici, ma anche ai giornalisti.

Secondo la deputata di Italia Viva, «gli opinionisti che hanno una condivisione rispetto ad alcune forze politiche possono influenzare l’opinione pubblica» e per questo, durante la campagna elettorale, bisogna regolamentare la loro partecipazione ai tg, ai talk show e alle trasmissioni televisive e bisogna anche sottoporli sempre a contraddittorio. Quindi, se uno dice «Viva Meloni!» contestualmente ce ne deve essere un altro che replica «Viva Schlein!» (e qui già sorge il primo problema: chi dice «Viva Renzi!»?).

Ora, la trovata della Boschi, che è una bella signora, ma che forse non è Golda Meir, fa ridere per svariati motivi. Innanzitutto, chi decide che quel tale giornalista è di destra e quell’altro di sinistra e quell’altro ancora di centro? Chi testa il grado di efficacia del suddetto opinionista sul pubblico televisivo, visto che se è bello, furbo e simpatico magari porta voti alla sua causa e se è invece brutto, stupido e arrogante (il classico cretino di Cipolla) invece glieli toglie? Che facciamo? Ci pensa direttamente la Boschi dal suo podere nell’Aretino? Se ne occupa la commissione di vigilanza, notoriamente popolata da Pulitzer, filosofi e strateghi? Oppure l’Ordine dei giornalisti al gran completo (ve lo raccomando)? O il Sinedrio dei Moralisti in servizio permanente effettivo? O i probiviri dell’Associazione Farisei&Filistei del perbenismo nazionale?

E poi, chi distingue il giornalista di sinistra in quota Schlein da quello in quota Bonaccini e da quello in quota Conte (che tra l’altro non è neppure di sinistra, che sentire Conte definirsi di sinistra fa sghignazzare), e quello di destra in quota Meloni (a parte il fatto che lì ormai ci sono solo posti in piedi) da quello in quota Salvini (perché, ne è rimasto qualcuno?) e da quello in quota Taiani (che probabilmente sta dormendo)? E i prepensionati in quota Draghi? E i reduci della quota Monti&Ciampi? Un bel rebus, un bell’enigma, un bel guazzabuglio che una scienziata come la Boschi dirimerà di certo con la stessa maestria esibita nella ideazione e nella scrittura della riforma costituzionale del governo Renzi e che tante soddisfazioni le ha riservato al referendum.

Ma fosse solo questo, sai che notizia, che di nuove Thatcher i nostri partiti in questi anni di deprimente sotto politica ne hanno prodotte a mazzi. Il vero tema è un altro, a dimostrazione che il grottesco si conferma l’unica chiave di lettura della realtà, soprattutto della realtà parlamentare. E cioè l’indignazione dei giornalisti. La sacrosanta indignazione dei giornalisti, l’indignata, indignante e indignatissima indignazione dei giornalisti. Ma come si permette la Boschi e chi crede di essere e a che titolo dà la patente di commentatore imparziale oppure no e vile attacco alla più trasparente e imparziale e incorruttibile delle categorie e giù le mani dal sacrosanto diritto di cronaca e pure dall’altrettanto sacrosanto diritto di critica e giù le mani dalle formidabili conquiste deontologiche, democratiche e antifasciste e giù le mani dalla spina dorsale del paese che non guarda in faccia a nessuno e che ai padroni del vapore gli fa un mazzo così, tutti quanti insieme, da destra a sinistra, a predicare, a ululare, ad ammonire, a flagellare, a trombonare. Comici.

La verità è un’altra. La verità vera è che chiunque sia del mestiere, ma anche chiunque non abbia ancora mandato il cervello all’ammasso e guardi la cosiddetta programmazione televisiva con un minimo di lucidità, ha già capito da tempo che se da una parte la classe politica cerca sempre di irregimentare l’informazione, dall’altra parte è l’informazione – al netto di alcune coraggiose eccezioni, per carità - che non vede l’ora di farsi irregimentare, di mettersi l’elmetto di questo o di quello (generalmente di chi poi ti fa fare carriera), che non vede l’ora di rinunciare alla libertà di stampa per diventare ufficio stampa, sotto mentite spoglie. Tanto è vero che nei meglio talk show della repubblica delle banane (che sono tanti, ma che sono tutti uguali) si sfiora, anzi, si sprofonda nel ridicolo perché i giornalisti, gli opinionisti, gli analisti e compagnia cantante vengono collocati fisicamente accanto ai politici di destra o di sinistra sulla base delle loro appartenenze.

Con il risultato assolutamente penoso che tu, prima che parli il preclaro opinionista di cui sopra, sai già perfettamente tutto quello che dirà, riga per riga, parola per parola, e poi sai già cosa dirà l’altrettanto preclaro opinionista della parte avversa, riga per riga, parola per parola. E se è così, ed è così, le alternative sono tre. O spegni la televisione. O cambi canale in cerca dell’andata dei trentaduesimi di finale della Conference League tra Paok Salonicco e Slovan Bratislava e/o di un documentario sulle virtù terapeutiche dell’amigdalina. Oppure aspetti che esploda la (finta) rissa tra l’ululante filosofo trockista in disarmo e il berciante pensatore della nuova destra con la quinta elementare, che a colpi di «si vergogni!» e di «si vergogni lei, piuttosto!» pone il sigillo finale a questo show da Circo Medrano.

Se l’informazione televisiva non è informazione, ma suburra, avanspettacolo, pochade è per delle precise ragioni storiche, che dovrebbero essere note anche alla Boschi, che invece sembra venire giù dal pero, e che nascono dalla (finta) rivoluzione di Tangentopoli. È da lì che l’approccio totalmente ideologico, da una parte e dall’altra, paradossalmente molto più ideologico di quando le ideologie esistevano davvero, e soprattutto moralistico alla realtà ha portato il giornalismo a non ragionare per notizie, ma per bande. Questo, però, sarebbe un discorso serio, che con la Boschi ha ben poco a che fare.

© RIPRODUZIONE RISERVATA