Quanti disastri
in nome del popolo

Ora che stiamo assistendo alla convulsa agonia dei 5Stelle e alle affannate contorsioni dialettiche di Salvini - che sembra inseguito dallo spettro di Renzi proprio come Macbeth da quello di Banquo - è bene ricordarci dei fiumi di parole spesi in questi anni sulla sacralità del popolo.

E dibattiti e focus e interviste e inchieste e talk show e il popolo di qua e il popolo di là e la rivolta della gente, della mitica gente, della santa gente benedetta contro le angherie di lorsignori, della trilaterale, dei poteri forti, degli amici degli amici e non se ne può più e la gente sta male e la gente dice basta e la gente deve prendersi ciò che è suo e allora ben venga questa sana ondata di populismo, di canottiere, di ululati, di piazzate, di gazebate, di adunate, di selfate, di social con il leader populista che trangugia un maritozzo, il leader populista che gioca a tressette, il leader populista che parla pane al pane, il leader populista che lui è come noi e bla bla bla…

Quante ne abbiamo sentite su quell’onda lunga destinata a tutto travolgere, tutto sradicare, tutto rivoluzionare.

E in effetti in larga parte è così, perché è grazie a questa chiave che si possono leggere fenomeni difformi e internazionali come Trump e la Brexit da una parte e dall’altra i trionfi elettorali (così vicini, così lontani…) di Lega e 5Stelle e, in parte, della Meloni, che però è una cosa diversa, anche perché lei è più seria e più furba degli altri. Senza dimenticare Berlusconi che, come al solito, da vero genio dell’annusamento dei tempi che cambiano, anche in questo caso aveva capito tutto prima degli altri.

E in questo marasma, in questo rivolgimento sociale profondissimo che non è per niente finito - basti pensare alle elezioni in Francia – in questo straparlare e farla fuori dal vaso e accordarsi alle ultime mode dei meglio giornalisti e dei meglio analisti del bigoncio che facevano a gara nel pronunciare parole come pietre sul tema del populismo, l’analisi perfetta, tombale, definitiva era invece arrivata, all’improvviso, dal più insospettabile di tutti: Achille Occhetto.

Nel settembre del 2019 – alcuni secoli fa… - intervistato a “In Onda” su La7, l’ex segretario del Pci, che con la svolta della Bolognina ha scritto una pagina di storia patria, a precisa domanda aveva risposto che “il popolo senza mediazioni è una brutta bestia”. Apriti cielo. Il povero Occhetto era stato sommerso da una marea di insulti, minacce, sberleffi e pernacchie sul comunista con il Rolex, il sinistroide che disprezza la gente, il burocrate di palazzo che non sa quanto costa un litro di latte e vergogna e farabutto e bollito e maiale e tutto il resto del profondissimo armamentario di analisi politica padroneggiato dai nostri giovani statisti scappati di casa.

Ora, al netto di quello che si può pensare di Occhetto e della storia del Pci (non è questo il punto e tutto sommato chissenefrega), il tema vero è che in quell’occasione era stato colto il punto fondamentale, dirimente, che non è solo politico, ma culturale, addirittura antropologico, e cioè la pericolosità, il sostrato demagogico e autoritario che sta alla base del concetto di popolo. E non è un caso che questa analisi acutissima sia arrivata da un epigono del Pci che, al di là degli slogan di facciata, è sempre stato, da Gramsci a Togliatti fino a Berlinguer, un partito elitario, addirittura aristocratico, che ha sempre saputo perfettamente governare e indirizzare le pulsioni popolari. Solo un ignorante può stupirsi di quella frase.

Il popolo è una brutta bestia. Bisogna stare lontani mille miglia da quel feticcio, da quel drappo rosso sventolato nei momenti di crisi economica e sociale, perché tali e tanti sono i disastri che abbiamo visto in nome del popolo. Ci sono gli individui, ci sono le classi, i ceti intermedi, le associazioni, la consapevolezza culturale, ci sono i legami, le reti, le comunità familiari, di interessi, di fede, di professione. Di questo è costituita una società complessa ed è da quell’incontro dinamico che scaturisce quel poco o tanto di libertà e democrazia che abbiamo.

Il popolo, checché ne dicano gli analfabeti di ritorno che non hanno letto Massa e potere di Canetti o l’assalto ai forni dei Promessi sposi o Céline e che sdottoreggiano sui social, in quella cloaca dove cultura e intelligenza - e conoscenza della grammatica italiana - sono bandite per decreto, è l’esatto contrario della democrazia. Perché non prevede più il dibattito e lo scontro tra comunità, culture e interessi contrapposti, ma solo due soggetti. Da una parte, il lider maximo - ma non esageriamo: visti i personaggi, qui forse è meglio parlare di Masaniello - che atterra e suscita, che impone le mani e che guarisce gli scrofolosi. Dall’altra, il popolo bue cieco, ottuso e beota, sempre pronto a dire di “sì” al padrone.

Questo è il punto, altro che rivolta contro i poteri forti. Che esistono e sono tenaci, feroci e pugnaci, ma che si può tentare di tenerli a bada solo grazie a una società che abbia coscienza di sé e sia composta da individui pensanti e senzienti, non certo da pecoroni che trascorrono le giornate a farsi indottrinare dal primo quaquaraquà che passa e che crede che basti urlare “spara al negro!” o “dagli alla casta!” per risolvere i problemi del mondo. Che invece, quando ci presenta il conto della sua mostruosa complessità - con il Covid prima e la guerra dopo, giusto per fare un esempio - in quattro e quattr’otto mette in mutande i sedicenti condottieri della rivolta popolare, costretti a rifugiarsi piagnucolanti tra le sottane dell’Unione europea o della Nato per farsi dare soldi e protezione dai cattivoni. Perché questo è il livello.

Il caso Di Maio, passato da gilet giallo che voleva linciare Macron a scendiletto di Buxelles, è solo l’ultimo delle migliaia di altarini che ci svela l’eterna commedia del potere. C’è sempre qualche cervellone pronto a mettersi in bocca la parola “popolo”. C’è sempre qualche fesso che gli crede.

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