Quel gusto perverso del politico in galera

In fondo, a noi la galera piace. Quella degli altri, naturalmente. Così come ci affascinano gli arresti, le retate, i blitz delle forze dell’ordine, le liste di proscrizione degli indagati. Soprattutto se sono noti. Soprattutto se sono politici.

È così da sempre, come da sempre questo è il genere di notizia che fa (ancora) vendere i giornali. Sarà perché siamo miserabili, sarà perché siamo livorosi, sarà perché siamo lividi e gonfi di rancori e frustrazioni, ma quando lorsignori finiscono al gabbio o sputtanati in diretta televisiva veniamo tutti quanti pervasi da un inconfessabile senso di sollievo. Perché il politico in galera ci permette di rendere tutto più facile, tutto più semplice, tutto più comprensibile. Di sentirci a posto con la coscienza. Di sentirci migliori. Lui - lui e solo lui - è il ladro, il corrotto, il corruttore. Noi, invece, siamo i puri, gli algidi, gli immacolati. Loro sono il problema, noi la soluzione. Loro sono il male, noi invece siamo il bene e, in quanto tale, vessati, seviziati e perseguitati dai padroni del vapore, da quelli che si baloccano nella stanza dei bottoni, da quelli che giocano con le vite degli altri, condannandoli a esistenze grigie e anonime proprio perché loro - gli altri - hanno sottratto le occasioni, le opportunità, le speranze. E invece, ora che li hanno beccati con il sorcio in bocca, gli tocca pagare finalmente pegno per tutte quelle nefandezze. Giustizia è fatta, non è così?

La clamorosa sentenza del processo di appello che ha ribaltato il primo grado assolvendo, a partire dall’ex sindaco Mario Lucini, tutti i coinvolti nel cosiddetto scandalo delle paratie di Como - inchiesta lariana che qualche anno fa si è trasformata in un vero e proprio caso nazionale - scoppiato nell’ormai lontano 2016 con perquisizioni, arresti e compagnia cantante e archiviato venerdì scorso con il più emblematico dei “il fatto non sussiste” è una materia che, a pensarci bene, attiene poco alla giustizia e al giornalismo e molto di più, invece, all’antropologia. Perché tutto quel gigantesco pasticcio nato nel 2008 e non ancora risolto oggi, anno del Signore 2023, che consiste nella realizzazione di un piccolo Mose per difendere Como dalle esondazioni del lago non è affatto, come hanno pensato e creduto gli spiriti semplici, un mostruoso caso di corruzione, truffa, abuso d’ufficio e tutto quello che di più scandaloso e inaudito si possa immaginare - perché così non è, e ora anche le sentenze lo dimostrano - quanto invece un semplicissimo e avvilente esempio di inettitudine e di incompetenza. Che forse, a pensarci bene, è addirittura peggio della disonestà. Perché, come diceva qualcuno, magari un giorno il ladro si redime, lo sciocco mai.

In un paese serio funzionerebbe più o meno così. C’è un problema, si prepara un progetto che risolva il problema, si cercano i soldi per mettere in pratica il progetto che risolve il problema, si fanno i lavori per realizzare il progetto che risolve il problema. Nel paese di Pulcinella, invece, funziona all’inverso. Ci sono dei finanziamenti (in questo caso quelli legati all’alluvione della Valtellina del 1987), ci si inventa un problema idrogeologico che non c’è (il lago a Como ormai non esonda praticamente più) per portare a casa quei soldi, si elabora un progetto per risolvere un problema che non c’è e, da buon ultimo, si fanno i lavori per realizzare il progetto che risolve il problema che non c’è. Il tutto, visto che i cantieri, oltre che inutili, si fanno pure con i piedi, devastando e deturpando per quindici anni il più bel lungolago d’Italia.

Un pastrocchio elaborato e realizzato da Regione Lombardia e dal Comune di Como che non può per nulla (la vicenda è lunga e complessa, impossibile ricordarne tutti gli aspetti in questa sede) essere addebitato al sindaco Lucini, persona specchiata e integerrima eletta a giochi già fatti nel 2012.

Facile dirlo adesso, però. Anche per noi dei media. Soprattutto per noi dei media, che in quanto a fare carne di porco delle vicende giudiziarie siamo maestri indiscussi. Molto meno allora. Anche perché la grande semplificazione offerta dall’azione della magistratura ha permesso al cittadino medio, al lettore medio, all’italiano medio di trarre le più superficiali conclusioni ad alzo social, e cioè che eravamo alle solite e quelli sono tutti uguali e il più pulito ha la rogna e il primo che si alza comanda ed è tutto un magna magna e bla bla bla. Con il plus che trattandosi pure di una giunta di centrosinistra, apriti cielo, eccoli lì, e poi fanno i comunisti e poi fanno i moralisti e poi ci fanno la lezione e poi fanno quelli antropologicamente superiori, che era una manfrina di un demagogico che non si poteva sentire, anche se un po’ quelli di sinistra se la meritavano visto che, in generale, appena uno di destra sposta una biro sulla scrivania parte a reti unificate il circo sulla Meloni fascista e il Salvini razzista e il Berlusconi ladro, mafioso e pedofilo e su quelli di destra che hanno il furto e l’evasione fiscale nel sangue e tutto il resto del grottesco canovaccio che da decenni accompagna il penoso teatrino della politica nostrana.

Poi il tempo passa e rimangono i cocci. Ora, sarà un bel mistero capire chi risarcirà questi sette anni infernali all’ex sindaco e ai suoi cari. Ma potete già darvi una risposta. Nessuno. E sarà anche un bel mistero, anzi, al contrario, è già una certezza che neanche questo processo, neanche questa piccola storia miserabile di una piccola provincia italiana, ci insegnerà a tenerci lontani dall’odore del sangue, dall’assalto ai forni, dalla bava delle tricoteuse, dalle scamiciate in piazza - perché la gente è stufa! la gente non ne può più! la gente vuole sapere! - e dal capire, soprattutto, che delegare alla magistratura la “selezione della razza” è il più rovinoso errore che la nostra società civile e il nostro sistema dei media abbia commesso negli ultimi trent’anni. Da quel giorno nel quale la politica è morta ed è stata sepolta per sempre...

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