Se la famiglia è in crisi
la scuola non è la cura

Chi scrive questo pezzo da ragazzo era troppo povero per permettersi il lusso di giocare al comunista.

Quello era il passatempo dei figli di papà, che trascorrevano le giornate a organizzare la rivoluzione proletaria al tavolo del biliardo o a discettare su Engels e Marcuse nella villa in Sardegna. Forse è per quello che gli sono sempre stati sul gozzo, soprattutto dopo averli visti, raffreddati i bollori giovanili, passare nelle file del Psi prima e di Forza Italia dopo, improvvisamente folgorati - chissà come mai - dal verbo liberale, libertario e liberista. E tanti saluti a Che Guevara e la sua motocicletta.

E quindi al ragazzotto di cui sopra, mentre gli altri bivaccavano da eterni fuoricorso a Scienze politiche, toccava studiare e lavorare e la classica occupazione dello studente lavoratore consisteva nelle supplenze nelle scuole di ogni ordine e grado: medie, superiori, diurne, serali, tecniche, umanistiche. Insomma, si rastrellava tutto quello che c’era sul mercato, molto rigoglioso, in verità, visto che abbondavano i docenti ai quali per un taglio a un dito venivano refertate due settimane di malattia, dieci giorni per un’influenzina, senza contare quelli che, appena prima delle festività di Natale o di Pasqua, se ne tornavano al paesello e appena dopo se ne perdevano le tracce. Luoghi comuni, si dirà. Ma il bello dei luoghi comuni è che sono veri.

E fra i discorsi motivazionali che i presidi facevano al giovane supplente spiccava l’importanza cardinale della scuola, che non doveva limitarsi a essere mera istruzione, ma invece pedagogia e maieutica e formazione e condivisione e soprattutto supplenza, perché, caro lei, la famiglia tradizionale è in crisi (vi diamo una notizia: la famiglia era in crisi già all’inizio degli anni Novanta) e quindi ai docenti toccava anche e soprattutto il ruolo dell’educazione. Educazione al confronto. Educazione alle relazioni. Educazione al rapporto tra simili. Educazione ai sentimenti, soprattutto.

Passati trent’anni, siamo ancora qui a parlare e straparlare, tra ministri, opinionisti, femministe e psico-pedagoghi su come combattere i femminicidi e le violenze di genere e quindi, come soluzione finale del problema, dell’Educazione Sentimentale da affidare alle scuole. Proprio come recita il titolo del celebre romanzo di Flaubert, ripetono a nastro svariati cervelloni in televisione e sui giornali, che infatti parla di tutt’altro e che non c’entra un bel niente con i sentimenti tra uomini e donne e i femminicidi, a dimostrazione che nessuno lo ha letto e se lo ha letto non ci ha capito una mazza. Ma questi sono gli intellettuali che ci meritiamo.

E quindi il giovane supplente così ben indottrinato sulle magnifiche sorti e progressive della scuola non vedeva l’ora di incrociare queste nuove generazioni pure, incontaminate e vogliose di essere plasmate dai professori e imparare così tutto quello che serviva non solo per essere promossi, ma soprattutto per saper stare al mondo. Un piccolo Eden dove tutto era in formazione, tutto allo stato nascente, tutto allo stato primigenio, un simposio fra eletti dove si insegnava a conoscersi, ad amarsi e, soprattutto, a rispettarsi.

Che povero pirla, il giovane supplente. In realtà, la scuola era un inferno. Le classi erano un inferno. La struttura ministeriale-burocratica-sindacale-fantozziana era un inferno, deprimente e grottesco. Che riproduceva in sedicesimo quello che c’era fuori, con tutte le sue nequizie, le sue ingiustizie, le sue violenze e le sue divisioni in caste. Esattamente come accade in ogni agglomerato umano. Ogni classe aveva i suoi capetti e i suoi servetti, i suoi aguzzini e i suoi mobbizzati, i suoi ricchi, che spernacchiavano per andare in gita a Parigi e passavano i weekend a Sankt Moritz, e i suoi poveri, che potevano permettersi a malapena la gita a Bergamo Alta e passavano la domenica al campetto con gli amici sfigati come loro, le belle sceme e le brutte frustrate, quelli che facevano ridere tutti e quelli di cui tutti ridevano, possibilmente dietro le spalle, i prepotenti e i vigliacchi, i demagoghi e le loro squaw, i talenti veri, puri e sensibili e quelli che li trattavano come degli imbecilli. Insomma, la vita reale. La vita di tutti i giorni. Lo stesso identico spettacolo che poi il giovane supplente avrebbe incontrato in altri uffici (diamo un’altra notizia: tutti gli uffici del mondo sono uguali) per non parlare delle redazioni, che in quanto a talenti presi a pesci in faccia e lacchè, sguattere e miserabili che fanno carriera non prendono lezioni da nessuno.

E l’ideona di quegli anni – ma anche di questi: geniale - era quella di caricare sul corpaccione informe, bolso e cellulitico della scuola tutta una serie di incarichi che nulla hanno a che fare con la sua funzione. La scuola che insegna a guidare il motorino. La scuola che suggerisce di non eccedere con i grassi e i carboidrati. La scuola che educa ai sentimenti sani e responsabili. La scuola che discetta (tra le risate generali) di patate&piselli. La scuola che dà lezioni di bon ton. La scuola che censura ogni divulgazione di violenza (e quindi abolisce il 90% dei capolavori della cultura, a partire dalla Bibbia, il libro più cruento, sanguinario, tribale e patriarcale della civiltà). Insomma, la scuola come una gigantesca Asl, uno sterminato campo di rieducazione conformista, un’immensa seduta di autocoscienza stile “Ecce bombo”, un’occhiuta e orwelliana sostitutrice della famiglia in crisi, che ormai, signora mia, si è ridotta a un ricettacolo di rancori, livori e vendette (a proposito: è dai tempi della tragedia greca che la famiglia è in crisi) e tutta un’altra serie di indicazioni ministeriali che coprono di infinito ridicolo l’educazione sessuale in classe.

Che paese di burocrati che siamo. Che popolo di causidici, di avvocaticchi, di legulei. La scuola, secondo uno stoico feroce come Montanelli, deve fare solo due cose. Insegnare un metodo e formare un carattere. Tutto il resto è fuffa. Ditelo al Sociologo Collettivo di Instagram.

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