Se la pace diventa
soltanto una moda

Una dozzina di anni fa è toccato a uno dei nostri intellettuali più raffinati - Checco Zalone - mettere la parola fine alla lunghissima ondata retorica legata al mito di Che Guevara. E a coprire di ridicolo tutti gli attempati rivoluzionari mondialisti dei tempi che furono e che ancora ingorgano il dibattito culturale elevatissimo, per niente infantile e per niente ideologico del nostro meraviglioso paese.

In una scena di “Sole a catinelle” - niente di che, per l’amor del cielo, mica stiamo parlando di Buster Keaton, ma comunque un filmetto intelligente e spiritoso – il protagonista, la classica macchietta della partita Iva all’italiana, cialtrone, lazzarone e arrivista entra in un negozio alla ricerca di una maglietta per il figlio e quando ne vede una con la celeberrima effigie del guerrigliero chiede al commesso ex sessantottino: “Scusi, della Che Guevara avete anche i borselli?”.

E’ bastata una battuta - formidabile - per dire tutto su questa faccenda. E cioè di come per decenni un evento storico e un personaggio storico siano stati spolpati, triturati, idealizzati e traditi fino a farli diventare dei santini, degli slogan, delle mode, delle bandierine identitarie da sventolare in ogni occasione, senza più alcun legame con la realtà, senza alcun rispetto del contesto, applicando canoni coerenti con il Sud America sottosviluppato degli anni Sessanta a mondi totalmente diversi e opposti, società opulente e industrializzate come quelle europee degli anni Settanta, Ottanta e oltre. E vagheggiando soluzioni palingenetiche a problemi di civiltà occidentali che nulla avevano a che spartire con la Cuba di Castro.

Ridicolo. E più passano gli anni, più questa cosa diventa ridicola. E patetica. E grottesca. Insomma, la solita deriva retorico-letteraria trombonesca della peggior sinistra terzomondista italiota che, a sua insaputa, ha recato un danno alla figura del medico argentino, trasformando Che Guevara nella “Che Guevara”, una marca di moda, come genialmente sintetizzato da Zalone.

La stessa cosa sta avvenendo adesso con Gaza. Da un po’ di tempo in verità, ma soprattutto adesso, visto il tragico incalzare della cronaca. Ed è una riflessione che è venuta spontanea dopo aver visto, per puro caso, il penoso spettacolo di qualche giorno fa alla fine di un affollatissimo concerto pop a San Siro. Sul palco c’era Elodie - cantante italiana particolarmente avvenente e al contempo particolarmente scarsa, ma fin qui niente di male: quando la mediocrità va in scena, le folle accorrono - che a chiusura dell’evento ha sventolato la bandiera di Gaza come forma di protesta contro i massacri di questi mesi.

Ora, la cantante in questione è nota per le sue idee di sinistra, le sue critiche alla Meloni e l’impegno a favore dei diritti delle donne, oltre che per il fisico scultoreo e l’abbigliamento particolarmente aggressivo che fanno la gioia degli italiani medi e inducono i più maliziosi a dire che la popstar conduce la sua guerra al patriarcato facendo vedere il sedere sul palco. E i maliziosi di cui sopra, dopo il concerto di San Siro, hanno ironizzato sull’associazione piuttosto ardita tra lo sculettamento a passi di danza e lo sventolamento della bandiera palestinese - che sarebbe una cosa seria - oltre a ricordare che fine avrebbe fatto la povera Elodie se avesse messo in scena questa “mise” a Gaza, appunto, o in Iran o in Siria o in Libia, nel senso che nel giro di due secondi sarebbe finita appesa per i piedi al primo lampione di Teheran. Perché a proposito di libertà individuali e di diritti delle donne non è che tutti i posti del mondo siano proprio lo stesso. Tutte cose che Elodie e tanti come lei naturalmente non sanno. O fingono di non sapere, che è pure peggio.

Ma il tema non è questo, naturalmente. Né tanto meno l’analisi bacchettona, occhiuta e moralista di come si veste o cosa sventola Elodie (se avesse mostrato la bandiera israeliana sarebbe stato esattamente lo stesso). In una società libera, all’interno dei limiti di legge, uno fa quello che vuole, pensa quello che vuole, si agghinda come vuole e manifesta per chi vuole. Il tema vero è l’inesorabile trasformazione di un quadrante storico di mostruosa complessità e di purtroppo quasi certa irrisolvibilità come quello del Medio Oriente - dove tutti hanno un pezzo di ragione e tutti un pezzo di torto - in uno spettacolino, in un modo di dire, uno stereotipo, un refrain nel quale non c’è più nessuna conoscenza della cosa in sé, della realtà, della realtà effettuale, del principio di realtà, ma solo la rappresentazione di una sit-com con i buoni tutti da una parte (i palestinesi, ovviamente, o comunque gli anti occidentali), i cattivi tutti dall’altra (gli israeliani, anzi, diciamola tutta, gli ebrei, che in fondo sono i nuovi nazisti, non è così?) e quella roba lì diventa il passaparola, il codice a barre, il passepartout per essere accettati in società, altrimenti in certi ambienti manco ti rispondono al citofono: la manifestazione per Gaza, la seduta di autocoscienza su Gaza, il simposio per Gaza, la festa in piazza per Gaza, l’aperiGaza, la canzone impegnata per Gaza, il romanzo impegnato per Gaza, la poesia impegnata per Gaza, la maglietta e il borsello “della Gaza”, appunto. Tutto vero.

La storia, la sua conoscenza, la sua profondità sparisce dalla scena. Restano gli slogan, l’aria fritta, le scemenze da corteo o da concerto, il nanismo politico, la cultura dell’alibi - è sempre colpa di qualcun altro! - dei nostri spassosi statisti, dei nostri intellettuali organici, dei nostri sedicenti artisti che la pensano tutti allo stesso modo, che dicono tutti le stesse cose, che ripetono tutti le stessi frasi fatte, tutti, ma tutti, ma proprio tutti, esattamente come facevano i leaderini sessantottardi quando organizzavano la rivoluzione proletaria al tavolo del biliardo e come fanno i nuovi maestri di pensiero che teorizzano la Palestina libera “dal fiume al mare” nella villa di famiglia in Engadina.

Ma quello sui disastri combinati dai figli di papà sarebbe un altro lungo, tragicomico discorso…

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