Una storia più lunga della guerra a Gaza

Nella memorabile chiusura della “Famiglia Moskat”, capolavoro del premio Nobel Isaac Bashevis Singer, con tutta probabilità, assieme a Thomas Mann, il più grande narratore del Novecento, arriva a sintesi la saga raccontata per settecento pagine e, più in generale, il destino maledetto della nazione benedetta.

Varsavia è circondata. I nazisti avanzano implacabili dalle pianure per compiere l’ultimo atto della loro missione. I superstiti di quella famiglia di ebrei tormentati si ritrovano un attimo prima che accada quello che già tutti presagiscono: «Hertz Yanovar scoppiò a piangere. Tirò fuori un fazzoletto giallo e si soffiò il naso. Stava davanti a loro confuso, vergognoso. “Non ce la faccio più. Non ho più forze”, disse in tono di scusa. Esitò un momento, e poi disse in polacco: “Il Messia arriverà presto”. Asa Heshel lo guardò sbalordito: “Che cosa vuoi dire?”. “La morte è il Messia. Questa è la verità”».

È forse il finale più terribile della storia della letteratura, un abisso nel quale il nichilismo di Singer, frutto velenoso derivato dalla cultura chassidica che lo ha formato e che ha ispirato tutta la sua opera, raggiunge il livello più profondo. Non c’è speranza. Non c’è redenzione. Non c’è riscatto ultraterreno. Non c’è neppure malinconia per i bei tempi andati. C’è solo la cognizione disperata, ma al contempo assolutamente razionale, della scomparsa di un mondo, di quell’universo ebraico dell’Europa centrale e orientale, dei suoi costumi, dei suoi riti, della sua lingua (Singer ha scritto in yiddish racconti e romanzi). Una scomparsa definitiva. Ed è proprio quello che rende particolarmente drammatica la riflessione dello scrittore: la certezza che il destino del suo popolo, della sua nazione, insomma, il destino dell’Ebreo sia quello di sparire dalla faccia della terra.

È forse questo l’errore prospettico che commettiamo nell’analizzare gli eventi di Gaza, perché riteniamo che il tema centrale sia lo scontro fra israeliani e palestinesi, che tutto lì si generi, tutto lì si compia, tutto lì deflagri e che se un giorno quella guerra permanente venisse finalmente pacificata, se non ci fosse più Netanyahu, se la Cisgiordania venisse liberata dalla stolta, lunga occupazione, allora il problema sarebbe risolto per sempre. Non è così. Non è per niente così. Il tema di Israele e di Hamas è solo un piccolo pezzo della questione vera e con quella si interseca solo da qualche decennio. Ma non è questo il punto, né le mille ragioni e i mille torti che hanno i palestinesi così come i mille torti e le mille ragioni che hanno gli israeliani. Il punto vero è di secoli più antico, esiste da prima di Hamas e Israele ed esisterà dopo.

Fra le tante disinformazioni che avvelenano il dibattito politico nel nostro paese, e un po’ in tutto l’occidente, c’è quella di aver incastonato l’antisemitismo dentro la finestra temporale del nazismo, se vogliamo del nazi-fascismo. Come se la Shoah fosse stato un momento temporaneo e occasionale di follia, orrore e inferno assoluto e che una volta sconfitti nazismo e fascismo la follia fosse finita con loro. Una parentesi tra il regno del latte e del miele e quello del marzapane. La storia però dice tutt’altro, basta conoscerla. E ricordarsi che esiste una letteratura, una saggistica sterminata e autorevolissima sul tema (un esempio per tutti: “La distruzione degli Ebrei d’Europa” di Raul Hilberg). La storia, quella vera, quella che non ha cittadinanza nelle piazze e nei talk show, dice che tutta la nostra civiltà è intessuta in ogni latitudine e in ogni epoca, a destra come a sinistra, dal concetto dell’odio nei confronti dell’ebreo, della “caccia all’ebreo” - attenzione, non all’israeliano: all’ebreo - dai tempi dell’impero romano a Lutero a Stalin fino a oggi: ogni secolo ha avuto i suoi pogrom, ogni secolo le sue persecuzioni, ogni secolo le sue segregazioni. Un substrato profondissimo di diffidenza, odio e ripulsa che ha innervato la nostra cultura, la nostra quotidianità, la nostra visione del mondo, destinato a esplodere ogni volta che arriva un momento di crisi economica, politica o sociale - nei momenti di crisi l’uomo cerca sempre un capro espiatorio - e che ha raggiunto nella Germania nazista l’apogeo della ferocia. Ma la differenza era “soltanto” industriale e pianificatoria: finalmente c’erano gli strumenti tecnici per fare piazza pulita. Ma la base culturale di odio era la stessa che c’era mille anni prima, è la stessa che c’è oggi in tante piazze occidentali ed è la stessa che ci sarà tra mille anni.

Questo è il punto. Quello vero. Ed è per questo che la scagliosa pagina di Singer risuona come una sentenza. Come una profezia. Qualsiasi cosa possa fare il popolo ebraico, ma davvero qualsiasi, anche di bene, come spesso fa di male, rimarrà sempre solo. La solitudine è la vera cifra, la vera identità dell’ebreo. L’ebreo è solo perché è diverso, perché è Altro, perché è marchiato dalla diaspora e dalla Colpa e proprio per questo rappresenta forse la metafora più perfetta dell’essere umano. Cos’è in fondo la vita di un essere umano? Solitudine. Dolore e solitudine, e poco altro ancora. Bene, l’ebreo è solo come ogni essere umano, ma un po’ di più. Fragile e inerme come ogni essere umano, ma un po’ di più. Miserabile e infame e vendicativo e meschino come ogni essere umano, ma un po’ di più. Intelligente, colto, saggio e al contempo fanfarone, traffichino, peccatore, perseguitato e persecutore come ogni essere umano, ma un po’ di più.

La verità è che se fosse “solo” questione di Israele e Palestina, di Israele e Hamas, di Israele e gli altri Stati musulmani, sarebbe tutto più “semplice”. Ma non è così. Quello dell’Ebreo è un tema mille volte più complesso, di fatto irrisolvibile. La caccia dell’uomo mannaro proseguirà ancora per secoli e secoli, senza mai requie, che esista ancora il loro Stato oppure no, e avrà termine solo quando l’ultimo degli ebrei sarà eliminato e verrà scritta la parola fine sulla loro storia. E, un secondo dopo, anche sulla nostra.

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