Wertmüller: un’icona
del vero femminismo

Quando Gennarino Carunchio, in una delle scene madri di “Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto”, rivolge a Raffaella Pavone Lanzetti il più terribile, il più spassoso e il più militante degli insulti - “Boddana industriale!”, “Boddana socialdemocratica!” - è proprio lì che si coglie la vera grandezza di Lina Wertmüller.

La regista scomparsa giovedì scorso non può certo essere paragonata a De Sica, Fellini, Risi o Scola, anche perché sarebbe ora di piantarla con l’ipocrisia di far diventare dei geni tutti quelli che muoiono, ma è stata una professionista di grande talento e di spiccata personalità che ci ha regalato alcuni film non solo divertentissimi, ma soprattutto capaci di indagare nel profondo le faglie della società italiana degli anni Settanta e, più in generale, dell’animo umano.

Nei suoi titoli migliori, “Travolti da un insolito destino…”, appunto, “Mimì il metallurgico”, “Pasqualino Settebellezze”, “Fatto di sangue tra due uomini…”, la Wertmüller, grazie a un racconto ricco di passione, anarchia, dialoghi surreali, situazioni grottesche e facce ancor più grottesche, ha scavato a fondo nei luoghi comuni che attanagliavano una società che pensava scioccamente di essere ormai modellata dall’onda progressista e femminista. E che, invece, si trovava ancora impastoiata nei suoi maschi tracagnotti, pieni di barba e peli, cotti dal sole, ignoranti, generalmente meridionali, possessivi, violenti e sessisti, che facevano morire dal ridere, ma che al contempo sbugiardavano il pensiero già politicamente corretto e spaventosamente ideologico dei maestri di pensiero di quella orribile stagione politica e culturale.

La regista ha raccontato con formidabile ironia e altrettanto formidabile ferocia la spaccatura eterna tra nord e sud, quella incomponibile tra borghesia e proletariato e, soprattutto, la guerra guerreggiata tra uomo e donna e per far questo ha preso a sonori schiaffoni ogni pensiero unico fariseo e filisteo, ogni perbenismo da terrazza, ogni intellettualismo da Haiku giapponesi, ogni tic e birignao delle convenzioni sinistroidi. Ce le ricordiamo le botte da orbi che volano tra Giannini e la Melato (così come tra Sordi e la Vitti in “Amore mio aiutami”) nella loro interpretazione indimenticabile sull’isola disabitata? Oggi sarebbe assolutamente impensabile vedere una scena del genere senza scatenare dal Gran Sinedrio della censura preventiva l’accusa di violenza di genere e di istigazione all’odio. Quanto abbiamo capito la lucidità della critica sociale e antropologica contenuta nel “E ora bacia la mano del padrone e lavami le mutande!”, nel “La femmina è il trastullo per il mascolo lavoratore!” e, soprattutto, nel “Lo sapevo che non dovevo fidarmi di una ricca, perché i ricchi ti fottono sempre!” proprio grazie a quelle iperboli, a quella violenza grottesca, a quel maschilismo da parodia?

C’è una grande potenza narrativa in queste battute e in queste immagini scorrettissime, e una grande profondità drammatica, perché alla fine è proprio questo il messaggio. Non esiste alcuna possibilità che gli opposti, per quanto si attraggano, possano puoi convivere in una condizione di parità e uguaglianza, il ricco non potrà mai mettersi al livello del povero e il povero elevarsi a quello del ricco, l’uomo tenderà sempre a prevaricare la donna, per quanto lei sbandieri la propria dignità e parità. Quei mondi sono inconciliabili, sciaguratamente scissi per sempre. E questo - senza che nessuno si scandalizzi - non è forse lo stesso tema trattato da un gigante della letteratura e del teatro come Strindberg nella “Signorina Julie”? Quel capolavoro non si basa sull’impossibilità di comprensione tra una donna ricca e un uomo povero? Certo, lo fa con il passo tragico e l’ambientazione nordica e plumbea tipica del grande drammaturgo, mentre con la Wertmüller siamo mani e piedi dentro l’Italietta più mediterranea, caciarona e cialtronesca, ma in fondo il punto è lo stesso. E per quanto si indignassero ai tempi, e probabilmente si indignano anche oggi due intellettuali militanti come Fofi e Moretti, che non le hanno mai perdonato la sua opinione positiva su Craxi e le sue critiche alla sinistra che esiste solo se individua un Cattivo da perseguitare, sta qui la sua vera eredità, la sua vera grandezza.

Così come è stata grande nella difesa del proprio ruolo di donna dentro un mondo totalmente maschile e maschilista: “Sul set comandavo io, gridavo e menavo”. Così come è stata sempre molto critica, e molto lungimirante, proprio come un’altra donna di sinistra, Natalia Aspesi, contro gli eccessi demagogici e talebani del #MeToo. E allo stesso modo, come ricordato dal “Giornale”, aveva detto la verità, l’unica verità, sulla morte di Pasolini, alla faccia di tutti i complottismi, tutti gli ideologismi e tutte le ricostruzioni fantasiose alla Fallaci (che secondo Massimo Fini si era inventata tutto per mero narcisismo) che ne hanno avvelenato la memoria per decenni: “È una storia di froci e quello delle marchette è un mondo pericoloso. Non ci sono gentiluomini tra le marchette”.

Ecco, per quanto i suoi ultimi film avessero perso smalto e anche la presa sulla società italiana, che nel frattempo era cambiata e forse lei non era più in grado di intercettarla e raccontarla, la Wertmüller resta un esempio magnifico di intellettuale impegnata, un’icona vera del femminismo, altro che le ridicole suffragette un tanto al chilo che inzaccherano i giornali e infestano le televisioni e i social. Purtroppo ora non c’è più, altrimenti c’è da scommettere che, dopo aver sentito per ore le ridicole suffragette di cui sopra blaterare e catoneggiare e trombonare sulla superiorità eterna delle donne sugli uomini, sulla meravigliosità della sorellanza e sulla magnificenza del gender fluid e degli asterischi, rivolgerebbe loro con somma goduria la più memorabile tra le memorabili frasi di Gennarino: “Senti, donna Raffaella Pavoni Lanzetti, ora mi hai rotto la minchia!”.

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