Un delitto in Brianza: tradimenti e misteri

Libri Con “Non è successo niente di grave” Michele Brambilla propone un noir tra cronaca e ricordi personali. Al centro la tragedia avvenuta all’inizio della primavera del 1980 che sconvolse la ricca provincia lombarda

C’erano un tempo i giornali del pomeriggio. Li trovavi in edicola quando la gente usciva dagli uffici o dalle fabbriche, pronti a catturare l’attenzione con quei titoli gridati, carattere nero bastone, che sembravano urlare dalle prime pagine. Quei titoli che lasciavano i polpastrelli sporchi d’inchiostro ancora fresco. Quotidiani come il Corriere d’Informazione o La Notte, che raccontavano la cronaca con un ritmo febbrile, mentre l’Italia tornava a casa tra il traffico, i treni pendolari delle Nord pieni di fumo e le luci dei neon. Un mondo finito nei primi anni Ottanta, quando la televisione prese il sopravvento e le edicole smisero di riempirsi due volte al giorno.

Quell’epoca torna a vivere nel nuovo romanzo di Michele Brambilla, “Non è successo niente di grave” (Baldini+Castoldi, 175 pagine, 19 euro). Non è solo un noir, non è solo un giallo: è un viaggio nella provincia lombarda del 1980, in una Brianza di tanto lavoro e peccati nascosti raccontata attraverso l’occhio di un giovane cronista – lo stesso Brambilla, allora ventunenne corrispondente del Corriere d’Informazione – che si imbatte in un delitto inspiegabile. E soprattutto in una comunità che, più che scoprire la verità, vuole tenere le proprie ombre ben protette.

Vicenda

La vittima è Caterina Besozzi, 34 anni, medico condotto arrivata da Laveno, la “sponda magra” del lago Maggiore. Bella, riservata, impermeabile ai pettegolezzi e agli approcci: una donna che non si lasciava avvicinare. Una sera di marzo viene trovata morta dal fratello Attilio, nella villetta di Besana Brianza dove viveva sola. La testa fracassata a martellate, la televisione accesa, la Settimana Enigmistica in mano.

A indagare è il maresciallo Vincenzo Vicinanza, campano, prossimo alla pensione, affiancato dal magistrato Forestieri. Ma più che indizi, emergono chiacchiere. Il paese si agita non tanto per l’omicidio, quanto per il timore che le indagini possano scoperchiare tresche, amori clandestini, conti non dichiarati. “Vuoi farti l’amante? E fattela. Ma che non si sappia in giro”, ammonisce il notaio Scanziani. E qualcuno, come l’Angelino Casiraghi, corre in caserma a raccontare la sua versione dei fatti, per paura che qualcun altro inventi storie più compromettenti.

Tra le pagine del romanzo, Brambilla mette in scena la provincia con il suo volto doppio: rispettabile in pubblico, spregiudicata in privato. Viene in mente Piero Chiara, uno degli autori amati da Brambilla, con il suo lago Maggiore disseminato di segreti e pettegolezzi, ma anche Francesco Guccini e quella “grazia o tedio a morte del vivere in provincia”. Un microcosmo dove la Chiesa ha ancora un peso, ma dove anche un parroco come don Tranquillo Riva – nome e indole che coincidono – non si fa illusioni: “Tutti abbiamo qualcosa di inconfessabile. Tutti. Nessuno escluso”. E aggiunge, con un sorriso amaro: “Certe cose la gente non le confessa in paese. Va fino a Caravaggio o alla Madonna del Bosco, per mettere più chilometri possibili tra le proprie debolezze e il pentimento”.

Il romanzo è anche il ritratto di un mestiere, quello del cronista, com’era allora: telefoni a gettone, pezzi dettati ai dimafoni, ore passate ad aspettare davanti a una caserma, chilometri macinati a piedi. Brambilla ricostruisce l’atmosfera di quei giornali della sera con tenerezza e precisione: l’odore di fumo nelle redazioni, i titoli battuti sulle Olivetti, il ritmo serrato delle notizie che bisognava rincorrere consumando le suole delle scarpe. Insieme a lui, nelle pagine, c’è l’amico e collega Beppe Cremagnani dell’Unità: due giovani cronisti che inseguono un femminicidio prima che la parola entri nel vocabolario comune, muovendosi in una Brianza di soldi facili, ville con piscina, cumenda e operai, equilibrio sottile tra ricchezza e mancanza di scrupoli.

Memoir

“Non è successo niente di grave” si legge come un giallo, ma resta dentro come un memoir. Lo sguardo dell’autore, oggi direttore del Secolo XIX dopo una lunga carriera che lo ha portato dal Corriere della Sera a La Stampa, dal Giornale a Libero, dalla Provincia di Como alla Gazzetta di Parma fino al Quotidiano Nazionale, è ancora quello del ragazzo che imparava a fare il mestiere sul campo. C’è un’Italia che stava cambiando, tra fabbriche che chiudevano e Ferrari nei garage, tra la Milano da bere che nasceva e la provincia che si illudeva di esserne parte. C’è soprattutto un’Italia che, allora come oggi, preferisce salvare le apparenze piuttosto che guardare in faccia la verità.

Alla fine, la comunità tira un sospiro di sollievo. “La normalità tornò in paese… Nulla di scandaloso era successo”, scrive Brambilla. Un richiamo amaro a ciò che la provincia – qualsiasi provincia – fa da sempre: dimenticare in fretta, nascondere, rimuovere. Il romanzo non chiude con una condanna, ma con una constatazione: cambiano le mode, i giornali, i titoli; resta identico l’animo umano, fatto di desideri e paure, di ipocrisie e segreti inconfessabili.

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