«Cristina Mazzotti torturata e uccisa dalla ’ndrangheta. Date il carcere a vita a tutti gli imputati»

Il processo Lunghissima requisitoria dell’accusa per il sequestro e l’omicidio della giovane: «Definire drammatico il suo omicidio è riduttivo. Il termine corretto è disumano»

Como

«Accade sempre più spesso che nei processi di omicidio a vittima scompare dopo pochissimo tempo. Oggi c’è un’attenzione mediatica sui processi e l’attenzione verso la vittima scompare subito. Non lasciamo che ciò accada: Cristina Mazzotti era una ragazza vitale, una diciottenne che aveva appena terminato la scuola e si apprestava ad affrontare il periodo più bello dell’anno. Ed è stata ammazzata in modo brutale».

Così Cecilia Vassena, pubblico ministero della Procura distrettuale antimafia di Milano, ha iniziato la requisitoria nel processo per il sequestro e il rapimento di Cristina Mazzotti, la diciottenne rapita cinquant’anni fa a Eupilio e morta in prigionia. Com’è noto in Tribunale a Como è in corso il processo ai presunti esecutori materiali del sequestro, ovvero il gruppo armato che ha portato via Cristina la notte tra il 30 giugno e l’1 luglio 1975. Sotto accusa Demetrio Latella, Antonio Talia e Giuseppe Calabrò.

Ecco la cronaca della requisitoria in tempo reale.

«ERGASTOLO»

«Io chiedo con forza che venga affermata la responsabilità. Non c’è un elemento, uno solo che possa essere valorizzato ai fini della concessione delle attenuanti generiche. Io non ho abitualmente nessun problema a invocare le attenuanti, ma in questo caso veramente non ne ravviso una di situazione positivamente valutabile. Per questo chiedo per tutti gli imputati la pena dell’ergastolo».

«La vita dei rapiti non aveva valore»

«Che Cristina potesse morire non era una eventualità sporadica da scongiurare, ma qualcosa che veniva normalmente messo in conto. Anche perché il valore della vita dell’ostaggio non aveva alcun valore. Gli ostaggi erano corpi che dovevano produrre denaro, denaro che doveva essere utilizzato dalla ’ndrangheta per la droga».

«Colpevoli anche di omicidio»

«Gli imputati potrebbero dire: “Ma ammesso e non concesso che io abbia partecipato al sequestro di persona, non c’entro con l’omicidio”. Perché l’omicidio è opera di quella gentaglia dei carcerieri. Ma non è così che funziona il diritto. Ci sono tutti i presupposti per ritenere, posto che è indubbio il nesso di causalità tra il sequestro e l’omicidio, che chi prende parte a una sola parte di questo fatto debba rispondere a titolo di dolo eventuale nell’evento morte».

La presenza di Antono Talia

«Perché possiamo collocare Talia alla guida della Fiat 125» dei rapitori di Cristina «Galli e Luisari», ovvero il fidanzato di Cristina Mazzotti e l’amica del cuore, «riconobbero la foto di Giuseppe Milan pubblicata sul giornale quando fu fermato il 29 agosto 1975. In dibattimento Emanuela Luisari non è più certa (...) Se andiamo a vedere le caratteristiche fisiche di Milan dell’epoca e le confrontiamo con la foto di Talia, scopriamo che le caratteristiche somatiche sono simili. Certo né Luisari né Galli riconobbero nelle foto segnaletiche Talia, ma in quelle lui aveva i baffoni e non i baffetti appena accennati descritti dalla Luisari».

Il secondo elemento riporta all’interrogatorio di Angelo Epaminonda: «Il 4 febbraio 1985 viene interrogato e gli vengono mostrate decine di foto. Tra queste quella di Talia: “Riconosco nella foto” dirà “tale Antonio Talia, trattasi di uno degli autori del sequestro Mazzotti. Fu lui a confidarmi di aver partecipato come manovale incaricato del prelievo della vittima. Mi segnalò che aveva nascosto i suoi 20 milioni in Calabria sotterrando la somma”».

La presenza di ’u dutturicchiu

Gli amici di Cristina Mazzotti, Emanuela Lovisari e Carlo Galli, «hanno riconosciuto Carlo Calabrò» detto u’dutturicchio. «La partecipazione di Calabrò discende dai riconoscimenti non solo in termini di certezza della Luisari: non il primo e non il solo, perché anche il Galli riconosce con certezza quell’uomo. Il riconoscimento avviene sua nel 2008, sia nel 2022 che in dibattimento. Hanno avuto modo di vederlo benissimo quell’uomo e per tanto tempo».

L’impronta sulla Mini

«L’impronta di Demetrio Latella sulla Mini dov’era Cristina Mazzotti è certa, e non ha motivo di stare lì se non perché appartenente a uno di coloro che ha partecipato al sequestro. Peraltro Latella confessa la partecipazione al sequestro in due occasioni: davanti al pm di Torino e davanti ai pm di Milano che lo interrogano a distanza di anni. Dunque la presenza di Latella è certa. Più complessa la presenza di Calabrò e Talia».

Ai rapitori della vita delle vittime non interessava niente

«A chi organizzava e partecipata a questi fatti criminosi non importava proprio niente della vittima, che era merce di scambio. La morte era una possibilità messa in conto. La vita della vittima non valeva niente».

Il boss di Milano Angelo Epaminonda

«Altro collaboratore di giustizia importantissimo è Angelo Epaminonda. Capo della cosca mafiosa catanese che operava anni 70 e 80, la sua storia è legata a quella di Francis Turatello. Epaminonda nel ’79 si crea un bel gruppo d’azione, i cosiddetti “indiani”. E di quel gruppo fa parte Demetrio Latella. Tra i vari eventi che coinvolgono Epaminonda, c’è la lotta sanguinosa con i Mirabella. Che erano uomini di Turatello: una volta arrestato e ucciso in carcere lui, si scatenerà una faida tra i due gruppi che poi vedrà vincere Epaminonda. Tra i vari episodi quello del ristorante La Strega in cui Gaetano Mirabella decide di uccidere il proprietario, Antonio Prudente… per farlo viene fatta una strage: 8 morti. Quando Antonio Talia viene arrestato è insieme a Prudente, 5 anni prima della strage. Quindi non è lontano dall’ambiente di Epaminonda».

Il primo collaboratore di ’ndrangheta

«Antonio Zagari nel 1994 inizia a collaborare. È figlio d’arte e dal padre viene a conoscenza di cose e vede con i suoi occhi da adolescente a casa sua la storia della ‘ndrangheta che si insedia a Nord e muove i primi passi. Racconta che quando suo padre si insediò a Buguggiate tutti i calabresi ‘ndranghetisti che bazzicavano al Nord facevano tappa a casa di Zagari. Anche per organizzare reati. Racconta l’origine del sequestro Mazzotti. E racconta e parla di Giuseppe Calabrò di come e in quali contesti cominciò a frequentare casa sua. (...) Non ci aiuterà a collocare gli imputati nel momento e nel luogo del sequestro di Cristina, ma ci parla molto di Domenico Calabrò: ha sempre detto che era una persona importante di San Luca, ovvero un personaggio di spicco della ‘ndrangheta di San Luca, racconta dell’organizzazione e progettazione di altri sequestri di cui Calabrò era parte attiva».

I collaboratori di giustizia

«In questo processo sono importantissime le rivelazioni di due collaboratori di giustizia storici: Angelo Epaminonda e Antonio Zagari.

Lo Stato non si arrende

«Se oggi possiamo dare un nome e un volto a tre uomini di quel gruppo armato che ha sequestrato la ragazza per consegnarla ad Angelini e company lo si deve al fatto che lo Stato c’è e fa il suo dovere. Questi tre uomini sono Demetrio Latella, Domenico Calabrò e Antonio Talia. Siamo qui oggi grazie alla perseveranza di chi ha indagato per decenni, ma anche alla perseveranza di chi difende le vittime. Questo processo nasce da una richiesta di riapertura delle indagini dei difensori della famiglia Mazzotti che dicono alla Procura di Milano: svegliatevi, dovete mettere insieme dei pezzi».

Rapita dalla ’ndrangheta

«Si è accertata la matrice ndranghetista di questo sequestro. E ne abbiamo la prova certa. Tra l’altro perché parte di quel riscatto è finito in Calabria (...) Fu un sequestro organizzato dalla ‘ndrangheta con l’aiuto di delinquenti del Nord (...) Oggi nessuno si sognerebbe più di usare il termine infiltrazione per la presenza della ‘ndrangheta nel Nord, perché ormai la sua presenza è diventata stabile. All’epoca però stava muovendo i primi passi. Antonio Zagari è stato il primo collaboratore di giustizia a raccontare veramente dall’interno certe dinamiche, che oggi sono patrimonio comune di tutti i processi di criminalità organizzata».

La lettera della mamma di Cristina

«Il mio primo pensiero va alle vittime. Dev’essere così. Anche se sono passati 50 anni per noi, per le vittime non è così. Soffermiamoci dunque al lato umano (...) Voglio leggere la lettera che la mamma di Cristina scrisse ai giudici in occasione dell’udienza preliminare di questo processo, per spiegare, anche scusandosi più volte, la scelta di non essere presente alla udienza: “Sento il dovere di spiegare la nostra assenza. La rassegnazione e la serenità così faticosamente raggiunta è svanita in un attimo. Ho rivissuto con immutato dolore l’angoscia di quegli anni… mi sono chiesta se potevo trovare la forza: non partecipare mi sembrava di abbandonare Cristina. Abbiamo trovato il coraggio di rinunciare al diritto di essere presenti... vi preghiamo di credere che non si tratta di una fuga dalla realtà, ma di una forma di riservata tutela dei nostri sentimenti».

Torturata

«Quello che ha dovuto subire cristina Mazzotti rientra pienamente nel concetto di tortura».

Cristina uccisa in modo disumano

«Definire drammatico il suo omicidio è riduttivo. Il termine corretto è disumano. Mi vengono i brividi a pensare alla sua prigionia, avvenuto in un luogo chiamato cascina Padreterno. Cristina Mazzotti è stata sottoposta in condizioni disumane. La buca era sotto il pavimento di un garage. In questa buca non poteva neanche stare in piedi. Respirava con un tubo del diametro di pochi centimetri»

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