Nini Binda compie 90 anni e si racconta in un’intervista: «Da Enzo Ferrari andai in Porsche»

Il personaggio «Mio padre mi sconsigliò di correre in auto, ma la motonautica era molto più pericolosa. Vorrei essere ricordato come un uomo che amava la sua città»

Campione di motonautica, amante dei motori (è attualmente vicepresidente dell’Aci provinciale nonché il consigliere più anziano) e del golf (è di casa al circolo Villa d’Este di Montorfano), imprenditore, politico ma, soprattutto, un comasco innamorato della sua città. Questo è in sintesi Nini Binda, che oggi festeggia 90 anni e che non perde occasione per dire la sua sui principali temi cittadini dalla sua pagina Facebook (il grande cavallo di battaglia rimane il “suo” piano del traffico). Nato il 6 aprile del 1934, ha visto passare sindaci, stretto migliaia di mani (compresi parecchi volti noti della moda e dell’imprenditoria), ma per lui al primo posto c’è sempre la “sua” Como.

Partiamo dal suo nome. Lei si chiama Palmiro, come suo nonno, ma è da sempre conosciuto da tutti come “Nini”. Come mai?

In casa fin da subito hanno iniziato a chiamarmi “Nini”. Palmiro era complicato e impegnativo, “Nini” molto più semplice e mi ci sono affezionato.

La storia della sua famiglia e dei suoi antenati è partita da Rezzago, poi si è indissolubilmente legata a Como, città che lei ha visto cambiare...

Ho visto un podestà, mio zio Attilio Terragni e undici sindaci.

E a chi si sente più legato?

A Spallino perché sono convinto che, essendo una città molto complicata, Como ha bisogno che un sindaco faccia almeno due mandati sereni. Noi arrivammo con Botta dopo il commissario e Rapinese dopo amministrazioni problematiche.

Può descrivere i sindaci eletti, da Botta in poi, con un aggettivo?

Botta era uno di poche cerimonie, ma uomo di fatti. Bruni si è lasciato scippare l’ospedale della città. Lucini? Una persona perbene. Di Landriscina dico che è un bravo medico, ma il mestiere del sindaco forse non era adatto a lui. Rapinese? Finora vedo più luci che ombre, ma per giudicare un sindaco attivo è necessario che finisca il mandato e, per lasciare il segno, deve farne due.

Torniamo alla sua famiglia. A suo padre Gianni.

Mio padre era un uomo di una generosità incredibile, ma non l’ho mai sentito come padre a differenza di mio zio, l’avvocato Bernasconi. Mio padre mi prendeva ogni cosa che chiedevo, ma era sempre impegnato. Mio zio, invece, mi ha seguito e anche quando decisi di entrare in politica per dare una mano alla città. Fu lui a consigliarmi di iniziare dal basso e di candidarmi come consigliere comunale per non fare brutte figure. Mi seguiva sempre, anche nelle gare di motonautica.

C’era poi il nonno Bernasconi, che ha realizzato l’hangar e gli storici parapetti del lungolago con i timoni.

Abitavamo a Breccia e quando mi dovevo spostare non mi lasciava usare le auto di famiglia con l’autista, ma mi mandava sempre in tram. “Così stai in salute” diceva.

I parapetti ormai sono stati smantellati dal lungolago. Cosa ne pensa?

Non giudico finché non avrò visto quelli nuovi, ma forse si poteva cercare di salvarli modificandoli se il problema erano le normative. In ogni caso mi auguro che li utilizzino per un altro scopo, sono una parte della memoria storica della città e spero proprio che non vadano persi.

Una curiosità: è vero che lei ha sempre comprato solo Porsche e che l’ha detto anche di persona ad Enzo Ferrari, in una visita a Maranello?

Sì certo. Facevo le cravatte per loro e andai, in Porsche, nella sede della fabbrica direttamente da Enzo Ferrari. Essendo io grande appassionato di motori parlammo tutto il giorno e chi lavorava a Maranello mi disse che dopo lo scià di Persia ero stato la persona con cui avevo trascorso più tempo. Mi chiese perché non avevo mai preso una Ferrari e io risposi che acquistavo solo Porsche perché a Como non c’era nessuno all’altezza allora di sistemare il motore Ferrari.

Lei da ragazzo aveva iniziato una promettente carriera nella motonautica. Poi improvvisamente, a soli 25 anni, smise. Perché abbandonò tutto?

Mi ero ribaltato nel Po, avevo le barche che mi passavano sopra e uno che avevo doppiato, mi ha preso e salvato all’ultimo minuto. Lì ho capito la pericolosità di quello sport. In più mio padre voleva che iniziassi ad aiutarlo in azienda e così lasciai.

Però è sempre rimasto un grande appassionato....

Le corse mi hanno sempre procurato una grande adrenalina, mi piaceva frequentare piloti come Taruffi e Lorenzetti perché erano piloti collaudatori e io ero molto affascinato dalla tecnica. Pensi che sono stato il primo a mettere una sorta di “carenatura” per coprire la testa, ma poi me la fecero togliere perché pericolosa.

Un embrione del famoso “cupolino” che sarebbe poi diventato protagonista degli offshore e di cui si parlò molto quando morì a Montecarlo Stefano Casiraghi, originario di Fino Mornasco. Lei l’ha visto gareggiare a Como?

Sì. E ricordo bene che gli avevano detto di non correre perché non era capace. Poi morì in quell’incidente durante la gara di Montecarlo. È uno sport molto rischioso.

Lei l’aveva capito e aveva lasciato perdere...

Io volevo correre in macchina, ma mio padre non voleva perché lo reputava pericoloso e mi disse di correre in motoscafo. In realtà la motonautica è più difficile e pericolosa dell’auto.

Quando lasciò le corse entrò in azienda...

Sì. E l’inizio fu complicato. Ero considerato il figlio di papà che non capiva niente. Invece portai metodi rivoluzionari e anche i dipendenti, arrivammo a 600, mi stimavano. Fui il primo ad aprire una sede a New York.

Poi però arrivò il tonfo.

Era il 2000 e fu dovuto al crollo di tre miliardi di fatturato americano a vantaggio della Cina. Il tessile era in crisi, chi più chi meno, tutti furono colpiti. Purtroppo all’epoca i sindacati ragionavano con la logica del “o tutti o nessuno” e così lasciammo tutti a casa. Invece tagliando solo una parte del personale penso che avremmo potuto andare avanti ancora. Ad ogni modo facemmo il concordato all’80% e mi è spiaciuto molto cedere la villa di viale Geno. Sa chi mi diede la possibilità di pagare altri sei mesi di stipendi?

Chi?

Giuseppe Guzzetti che credette nella storicità dell’azienda e finanziò altri sei mesi, non di più. Guzzetti, tra l’altro, è stato protagonista di una storia curiosa. Mascetti (l’attuale sindaco di San Fermo e già amministratore dell’azienda di Binda, ndr) una volta mi telefonò alle 5 del mattino per dirmi che era morto mio fratello, dopo qualche anno che era morta mia sorella. E ancora, sempre la mattina presto, che stava arrivando la finanza perché avevo spostato tutte le auto dei finanzieri che parcheggiavano davanti a Palazzo Terragni.

Una mattina squillò il telefono alle 5 del mattino, io risposi e dissi “Ma vai a quel paese” (in modo decisamente più colorito, ndr) perché ero convinto che fosse ancora Mascetti con altre brutte notizie. Invece dopo qualche ora mi chiamò la segretaria di Guzzetti dicendomi come mai ero stato così scortese con il presidente. Era stato Guzzetti a chiamarmi così presto perché alle 5 l’autista lo andava a prendere ad Appiano e lo portava alla “Ca’ de Sass”.

Lei ha conosciuto anche un imprenditore come Caprotti e vi accordaste per la sponsorizzazione della rotonda davanti all’Esselunga di Lipomo, in realtà, in Comune di Como...

Ci eravamo incontrati da ragazzi, entrambi facevamo il Setificio a Krefeld. Anche lui, infatti, arrivava da una famiglia tessile. Quando era presidente di Esselunga era finita la sponsorizzazione della rotonda, l’avevo contattato visto che il suo supermercato era di fronte e ricordo che venne in ufficio con un’Audi oro metallizzata. Voleva anche informazioni sul Dadone.

Lei è da sempre legato al mondo del golf e in particolare al Villa d’Este di Montorfano.

Sono stato presidente dell’immobiliare che lo ha rilevato e ho portato qui, attraverso una particolare conduttura, l’acqua del lago di Como, che dista 9 chilometri. All’inizio mi diedero del matto, ma la scommessa la vinsi. A proposito di lago c’è una cosa che mi sta particolarmente a cuore.

E quale?

Lo stop assurdo alla “metrotranvia lacuale” che avevo creato nel primo bacino e poi la recinzione ai giardini. Questo è un grande rammarico, la recinzione avrebbe fatto risparmiare anche soldi per l’ordine pubblico.

La sua famiglia fece la prima donazione dopo la guerra. Nel 1945 acquistò una campana per la chiesa di Breccia. Cinquant’anni dopo lei finanziò il restauro della fontana di Camerlata, ma anche interventi più o meno grandi, come la fontana di Villa Geno, il lum de Comm, la ritinteggiatura dell’hangar, la passeggiata Gelpi e perfino gli archetti delle aiuole di piazza Cavour. Amore per la città dai dettagli?

Senza dubbio, ma sono sempre intervenuto perché mi dà fastidio il disordine. Una città è bella a partire dai dettagli.

Ma è vero che lei quando era assessore con Botta si presentava in giunta con un pacchetto di scatti fatti con la Polaroid con i problemi che vedeva girando la città in bicicletta?

Sì è vero. Lo facevo a prescindere dalle competenze. Rovesciavo sul tavolo le foto e poi il sindaco Botta dava indicazioni, in base alle competenze, per intervenire e risolvere i problemi.

Visto che lo faceva con tutti i colleghi , ecco spiegato il perché fu protagonista di qualche malumore...

(Ride). Una cosa però vorrei che la scrivesse...

Dica pure...

Quando mi candidai per la prima volta nel 1994 presi 440 voti. Iniziai da consigliere comunale, dalla base. In famiglia mi avevano insegnato che in tutte le cose, compreso l’ambito civico, bisogna impegnarsi mettendo sempre l’anima e il cuore, restituendo almeno una parte di quello che si è ricevuto. Quattro anni dopo 550 preferenze. Nel 2002 non mi presentai più perché dovevo portare a termine il concordato preventivo dell’azienda. La Binda 1945 esiste ancora oggi ed è portata avanti con successo dai miei nipoti Michele e Giovanni. Successivamente, nel 2007, An mi propose di candidarmi. Accettai, ma presi 48 preferenze.

E ci rimase molto male, immagino...

Malissimo, fu una grande delusione per me. I vertici del partito non aiutarono affatto né me né Enzo Molteni (allora presidente della Canottieri Lario, ndr).

Lei da uomo di sport finì nel mirino dei tifosi del Como perché disse, in sintesi, che il Como non era una squadra da serie A, ma era meglio che si concentrasse sul restare stabilmente in B. I tifosi le misero anche striscioni con la scritta “Binda cervello di serie B”. Oggi con il Como a un passo dalla A ha cambiato idea?

Adesso sono curioso di vedere come verrà gestito il Como in serie A. Io non ho mai avuto nulla con il calcio o con la squadra, al punto che con Di Bari ho anche personalmente fatto parte della società come consigliere azionista, memore di quanto aveva già fatto mio padre in un momento storico diverso, ma come dissi già allora la città di Como non è attrezzata per gestire una serie A. Trovo che possa essere un grosso problema. All’epoca avevo in parte risolto con l’utilizzo dei bus “blindati” per portare i tifosi ospiti. Idea che è stata ripristinata anche adesso. Allora quando dissi quelle parole ogni giorno ricevevo in ufficio residenti nei primi piani dei palazzi che si lamentavano perché stufi di vivere le domeniche con i gas lacrimogeni. Inoltre c’erano continui guai e i tifosi buttavano perfino le panchine nel lago...

Lei si scontrò violentemente anche con Preziosi...

In prefettura. Mi disse di stare zitto perché non sapevo neanche quanti soldi servivano per gestire una società. Intervenne il prefetto a calmare la situazione.

Passiamo a qualcosa di più leggero, alla soap opera “Vivere”, che lei contribuì a portare a Como per le location. Come andò?

Mi trovavo in aeroporto a Linate e venni a sapere che volevano girare una telenovela sul lago Maggiore. Dissi subito: perché non a Como? E mi attivai per metterli in contatto con il proprietario di Villa Musa mentre altre parti le girarono nella mia azienda. “Vivere” ebbe grande successo portando dappertutto le immagini di Como e del lago. Il tutto da un incontro casuale.

A 80 anni si è sposato con sua moglie Chicca. E per i 90 anni come festeggerete?

Noi due, ma tutto molto semplice. La mia grande fortuna, lo devo dire, è aver sposato a 80 anni mia moglie. È la cosa migliore che ho fatto. Mi è vicina, mi supporta e mi sopporta. E so che non è facile.

In futuro come vorrebbe essere ricordato?

Come una persona perbene che amava la sua città.

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