A spasso nei giardini, magici e dimenticati

Libri Il volume di Sandra Lawrencein è un viaggio illustrato alla scoperta del patrimonio naturale mondiale. Racconta di “paradisi” creati dall’uomo con fatica e tenacia , ma in molti casi abbandonati e ridotti in miseria

Scorrendo le pagine di diario o le corrispondenze dei tanti viaggiatori soprattutto del nord Europa che per decenni percorsero l’Italia fino alla remota Sicilia, a partire dalla metà del Settecento, si è sorpresi dalle loro parole entusiastiche nel descrivere la varietà e la bellezza del paesaggio e i molti giardini che via via capitava loro di visitare. L’attrazione per questi gentiluomini (poche ancora le donne), non è dunque solo per le opere d’arte di cui il Bel Paese era conosciuto, ma anche per quei magnifici luoghi di delizia, così diversi gli uni dagli altri, per epoca, per conformazione del terreno o per il gusto dei committenti, che fanno dei giardini italiani un unicum al mondo.

E basta pensare ai laghi lombardi per averne conferma. Ritornano così alla mente le frasi di lodi aprendo il volume “Giardini perduti”, che racconta in brevi ma esaustive schede, questi “paradisi” creati dall’uomo con fatica e con tenacia in tutta la terra, ma in molti casi successivamente abbandonati e ridotti in miseria. L’autrice, Sandra Lawrence, confessa la difficoltà di stilarne una lista e sceglie di presentare quelli che, per un motivo o per l’altro, sono stati successivamente, anche a distanza di secoli, ricostruiti. Quelli che hanno ripreso vita e che oggi sono visitati da milioni di persone.

Assonanze

Le quaranta schede non seguono un ordine cronologico o geografico. Al contrario, l’impressione è che si proceda per assonanze, per richiami poetici: l’incanto della atmosfera contemplativa del Giappone accanto alla complessità formale, ma armoniosa, del sito olandese “Paleis Het Loo”. O anche per dissonanze: il “Gardens of the Nations”, del Rockfeller Center, nel cuore di Manhattan a New York (primi Anni Trenta), descritto tra un parco settecentesco della Sassonia rurale, il “Seeifersdorfer Tal di Wachau”, nei pressi di Dresda, evocante scenari arcadici e i “Kensington Roof Gardens” (1938), luogo di ritrovo mondano caro ai londinesi.

Ma in realtà in questo caso l’accostamento dei due giardini si deve alla progettazione di entrambi da parte dell’architetto scozzese, Ralph Hancock che pensò di ricreare il suo visionario e ammiratissimo giardino pensile americano in terra inglese. L’Inghilterra è la nazione più rappresentata. Certo l’autrice vi è nata e da decenni ha esplorato con passione e fatto conoscere questi luoghi. Ma è anche vero che è in questo paese verdissimo che ha preso forma nel corso del XVIII secolo l’idea di uno spazio aperto non più delimitato geometricamente (al contrario dei giardini italiani e francesi), ma volutamente privo di prospettive.

Riferimento

L’idea era di suggerire un luogo incontaminato, “naturale”, senza traccia della fatica e del lavoro, come ricordano le magnifiche descrizioni paesaggistiche della scrittrice britannica Jane Austen (1775- 1817).

Sono sette le schede che raccontano la varietà, i cambiamenti, gli abbandoni e gli straordinari recuperi di questi “giardini inglesi” che hanno saputo essere punto di riferimento per molti parchi europei, ma non solo, nel corso di due secoli. Basta ricordare “Painshill Landscape Garden” nella campagna del Surrey creato a metà Settecento, grazie all’idea di mettere a dimora i semi raccolti nelle Americhe dal botanico J. Bartram. Una moda poi dilagata in tutta Europa ed anche da noi, come scrive il conte Luigi Castiglioni, autore di “Storia delle piante forestiere” (Milano 1791- 1794); “I semi di quest’albero da me colti in America, nacquero benissimo in Lombardia, e le molte piante, che posseggo, non solamente sono molto vigorose, ma hanno resistito al freddissimo inverno del 1788, e 89 in un bosco novello, dove varie ne furono piantate”.

Ma anche l’Italia è spesso presa ad esempio, soprattutto nelle riedificazioni Otto-Novecentesche. Un esempio è il giardino di “Great Ambrook”, a Ipplepen, nel meraviglioso Devonshire, dove viene ricreato, con gradinata centrale, terrazza panoramica e piccole vasche, un’atmosfera italiana, con la tipica, e tanto amata dagli inglesi, pavimentazione alla “palladiana” (scaglie di marmo e di pietra di forme non regolari). E dell’Italia Lawrence sceglie quattro luoghi di delizia, tutti nel Lazio. Una selezione forse troppo parziale. Tre nei pressi di Roma, a Tivoli: Villa Adriana, la magnifica residenza dell’imperatore Adriano, una piccola città più estesa e sfarzosa di Pompei (II sec. d. C.); Villa Gregoriana, spettacolare opera di ingegneria idraulica voluta da papa Gregorio XVI per contenere le esondazioni del fiume Aniene e che ha creato la Cascata grande (120 metri di salto), tra grotte naturali, rovine romane e boschi (1831-1835); e Villa d’Este, commissionata dal cardinale Ippolito II d’Este, una “fabbrica” tardo rinascimentale circondata da un giardino con terrazze, scoscesi pendii, vasche e fontane e con gli spettacolari giochi d’acqua che tanto incantarono i viaggiatori del Grand Tour.

Un raffinato progetto che conobbe lunghi periodi di oblio, come il Sacro Bosco di Bomarzo famoso per le mostruose sculture in pietra raffiguranti divinità e animali mitologici. Il volume spazia in tutti i continenti, ma viene tralasciato un angolo di mondo, la penisola arabica, che con i suoi “giardini delle montagne” (Oman), creati e poi distrutti dal clima, ma tenacemente ricostruiti, sono il segno della magnificenza della natura. Ma insegnano anche che un giardino, con le sue oasi, fa vivere e sopravvivere. Un pensiero su cui tornare.

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