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Sabato 18 Ottobre 2025
Angelo Quattrocchi, il potere della parola
Profili Ritratto dell’intellettuale cosmopolita, figura centrale del beat e simbolo dell’Italia alternativa degli anni ’70. Sapeva che la rivoluzione più pericolosa poteva partire dal linguaggio: è stato un Pasolini meno lirico e più carnale
In un Paese che ha fatto del compromesso una religione, Angelo Quattrocchi è sempre stato fedele solo a se stesso e ai suoi lettori. Non per posa ma per sopravvivenza. In un’Italia che ha trasformato la ribellione in nostalgia e la memoria in un talk show, Quattrocchi scriveva come si vive e viveva come si scrive.
Nato a Cantù il 12 novembre 1941 (Roma,6 giugno 2009) Quattrocchi appartiene a quella razza estinta di intellettuali che non chiedevano il permesso di parlare. Nel 1968 attraversa Parigi mentre la storia tenta di riscriversi da sola. “E quel maggio fu rivoluzione” è il suo primo grido: non soltanto un libro, ma un detonatore. Lui tra i pochi italiani ad essere in prima linea sulle barricate parigine del 1968 ha scritto non la cronaca di quei giorni ma la loro autopsia: il sangue ancora caldo, la voce ancora spezzata. Quattrocchi non racconta la rivoluzione, la respira e ci ricorda che ogni sogno, se non è sporco di realtà, è solo una réclame.
Cambiamenti
Il problema dell’Italia, diceva, è che vuole cambiare tutto senza cambiare sé stessa. Lui invece cambiava continuamente pelle: attivista, scrittore, editore, provocatore, anarchico della parola. Se la cultura era diventata un condominio, Quattrocchi era il vicino che metteva la musica alle tre del mattino. E quando fonda la casa editrice “Malatempora”, l’editore è finalmente un sabotatore: pubblica ciò che gli altri rifiutano, stampa ciò che le librerie non vogliono, racconta ciò che la sinistra finge di non vedere.
“Malatempora” non è un marchio, è una dichiarazione di guerra. I suoi libri - dai racconti erotici alle inchieste sul potere- non cercano lettori, cercano complici. “Non vendiamo sogni”, diceva, “vendiamo scomode realtà”. Quattrocchi non ha mai creduto nella letteratura come anestetico: per lui la parola è un corpo, e come ogni corpo ha bisogno di sudore, di ferite, di orgasmi e di memoria. C’è chi scrive per essere letto e chi scrive per essere creduto. Quattrocchi scriveva per essere ascoltato, ma non da tutti. Le sue parole non chiedono consenso, chiedono attrito. La sua scrittura non è un rifugio ma un campo di battaglia. È letteratura militante nel senso più letterale: ogni frase è una molotov d’inchiostro. Come un Pasolini meno lirico e più carnale, Quattrocchi sapeva che la rivoluzione più pericolosa è quella del linguaggio.
Mentre gli intellettuali reduci del ‘68 cercavano riconoscimenti, lui cercava contraddizioni. Perché solo chi è in conflitto con sé stesso può essere davvero libero. Quattrocchi fa della scrittura un atto di resistenza contro il conformismo linguistico. Rifiuta la prosa accademica, la “buona letteratura”. La sua frase è ruvida, come carta vetrata: serve per togliere la vernice al linguaggio. Se il potere seduce con le parole, Quattrocchi le rovescia: non accetta la correttezza linguistica come anestesia. Ogni sua pagina è una denuncia del “come si deve scrivere”, del “come si deve pensare”.
Verbo pericoloso
Per lui, scrivere è un verbo pericoloso perché la letteratura deve essere un territorio di contrabbando. Ma in fondo, Quattrocchi è stato anche un romantico travestito da anarchico. Un uomo che ha creduto nella possibilità che la parola potesse cambiare il mondo, e che ha visto il mondo cambiare la parola. Negli ultimi libri - “Ultimi fuochi”, soprattutto- si sente la stanchezza di chi ha combattuto troppo a lungo contro il vento. La rivoluzione è finita, la ribellione è diventata moda, e lui resta lì, con la sigaretta accesa, a guardare le rovine. Non è la nostalgia che lo muove, ma la lucidità: sa che ogni rivoluzione fallisce quando diventa istituzione. Il ’68, il G8, la controcultura, la rivoluzione sessuale, tutto finisce nella vetrina. Quattrocchi lo sa, eppure continua a scrivere, perché scrivere è l’unico modo per non farsi comprare.
Oggi, quando gli scrittori si vantano di essere “scomodi” nei talk show da “corona”, Angelo Quattrocchi ci appare come un reperto di autenticità. Non ha mai chiesto applausi, non ha mai fatto il professionista della provocazione. La sua radicalità era artigianale: fatta di carta, inchiostro e nervi. E la sua coerenza una forma di solitudine. Forse è per questo che oggi è così poco ricordato: perché Quattrocchi non ha mai voluto essere un personaggio. Ha scelto di essere una presenza: scomoda, carnale, contraddittoria. In un panorama editoriale dove tutto si consuma in un tweet, le sue parole ancora graffiano. La sua opera resta una bussola per chi non si accontenta della superficie.
“E quel maggio fu rivoluzione”, il suo primo pamphlet pubblicato in italiano e in inglese, non è solo il racconto di un’epoca, ma la mappa di un modo di esistere: scrivere senza chiedere permesso, vivere senza garanzie. In un tempo in cui la letteratura sembra temere la realtà, Quattrocchi ci ricorda che la parola serve solo se sporca, se sanguina, se brucia.
Angelo Quattrocchi non è stato un autore: è stato un anticorpo. E come ogni anticorpo, il sistema culturale ha cercato di espellerlo. Ma la sua voce rimane lì, sotto pelle, come una ferita che non passa.
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