Brutta meraviglia: ecco Milano secondo Buzzati

Libri Nel giorno di Sant’Ambrogio, la raccolta di testi che il grande scrittore ha dedicato alla metropoli. Poesie, racconti e sceneggiature sul suo “villaggio”

Racconta il tuo “villaggio” e racconterai il mondo, diceva Tolstoj. Perché “raccontare” non significa semplicemente descrivere un luogo (la parola “villaggio” è da interpretarsi in senso molto ampio) oppure restituire un evento e una vicenda, ma piuttosto reinventare i dati raccolti nell’osservazione della realtà, per poi animarli nella trasfigurazione prodotta dal racconto.

Una simile idea del “racconto”, della sua scaturigine e delle sue modalità, può risultare molto utile per inquadrare i tantissimi scritti che Dino Buzzati ha dedicato a Milano dal 1929 al 1971 e adesso vengono riuniti per la prima volta in ordine cronologico in un volume degli “Oscar” Mondadori, ottimamente curato da Lorenzo Viganò e intitolato “Scusi, da che parte per Piazza del Duomo?”.

La tartaruga che scoppia

Si tratta in prevalenza di articoli per il “Corriere della Sera” e il “Corriere d’Informazione”, ma ci sono anche poesie, apologhi, brevi racconti per riviste, prefazioni e introduzioni ad opere altrui, perfino due sceneggiature per documentari sulla Galleria Vittorio Emanuele II e Corso Buenos Aires, con l’aggiunta di alcuni inediti assoluti. Il volume si apre proprio con un inedito: nella pagina iniziale c’è infatti la riproduzione di un documento ritrovato nell’archivio personale di Buzzati e pubblicato per la prima volta. E’ un foglio disegnato, con l’aggiunta di alcune didascalie (una cosiddetta “storia dipinta”), dove Milano viene paragonata a una tartaruga che ingrossa progressivamente, fino a scoppiare.

I resti della tartaruga, che si chiama appunto “Milano”, vanno a formare la città. Questa “storia dipinta” è molto rivelatrice, perché nel dialogo tra parole e immagini condensa tutto il rapporto di attrazione e repulsione che Buzzati ha intrattenuto con la città che egli stesso aveva definito “brutta, fumigosa e meravigliosa”. Si può insomma parlare a pieno titolo di una Milano di Buzzati, esattamente come si parla della Milano di Manzoni, Stendhal, Gadda e Testori, solo per citare alcuni altri esempi. Il paragone maggiormente appropriato è forse quello con Stendhal, “milanese” acquisito come Buzzati, che infatti lo evoca apertamente in uno scritto del 1964 dal titolo “Ferragosto coi marziani”, col racconto della città deserta nel cuore dell’estate (perché si è sparsa la voce, ovviamente falsa, che stanno arrivando i marziani: «Certi dicono che siano già a Crescenzago...»).

“Ci vorrebbe Stendhal”

Buzzati si sofferma in particolare sul silenzio irreale/surreale della metropoli a Ferragosto, rivolgendosi sul filo del paradosso e con voluto sarcasmo ai tanti milanesi che hanno lasciato la città e le sue “estreme caligini” per raggiungere i luoghi di vacanza: «Ma lo sapete, voi sciagurati villeggianti stipati in disgustosi coacervi di corpi sudaticci sulle spiagge, sulle scogliere, sui panfili, o sulle vette delle Alpi Graie Cozie Lepontine o Dolomitiche, lo sapete che pace, che fresco, che riposo, che libertà, che chic, che silenzio nella vecchia dannata Milano?». I marziani non arrivano, ma al loro posto potrebbe – e anzi dovrebbe – arrivare l’illustre predecessore, che avrebbe modo di rivivere la “sua” Milano, fatta di passioni, desideri, ebbrezze, malinconie, “chasse au bonheur”, trasporti dell’immaginazione, in un vorticoso alternarsi di tutto e nulla. Scrive infatti Buzzati: «Ci vorrebbe Stendhal. Peccato che non possa fare una capatina. Ritroverebbe i rumori precisi dei suoi tempi, il fruscio delle foglie nei giardini, il passo solitario nella via Cappuccio impietrita dal sonno, il lontano clop clop di una carrozza (o questa me lo sono sognata?»).

La domanda che chiude l’evocazione del “milanese” Henri Beyle dice moltissimo del “milanese” Dino Buzzati, perché anche la sua Milano è un luogo reinventato e trasferito in una “realtà” – più reale della cosiddetta realtà “reale” – che contiene immaginazione, fantasticazione e mito, e insieme li trascende. Come ha osservato giustamente il curatore, questo rapporto di Buzzati con Milano trova la massima e più riuscita espressione nel testo poetico che dà il titolo all’intero volume.

Pubblicato nel 1965 per il libro “Milano” di Giulia Pirelli, con fotografie di Carlo Orsi, “Scusi, da che parte per Piazza del Duomo?” si presenta infatti come «una cronaca cittadina che diventa un flusso di coscienza nel quale si mischiano ricordi d’infanzia e pene d’amore, famiglie nobili e persone qualunque, notizie uscite a getto dalla telescrivente del “Corriere della Sera” e condizioni meteorologiche, come se la metropoli fosse un giornale da sfogliare, un album dei ricordi, una cartolina da spedire a chi non ci è mai stato».

Quotidianità e apocalisse

Raccontando «l’orrenda e adorabile» Milano («Né verde né colli né mare né bosco né fiume / una città veramente schifosa. / Pure tra queste desolate mura si è verificata la vita mia»), Buzzati racconta se stesso, perché la città è un paesaggio affettivo nel quale convivono gli opposti: la bellezza nascosta e la bruttezza evidente, la durezza e la fragilità, il tutto e il nulla. Allo stesso modo, in Buzzati convivevano l’uomo di città e l’uomo di montagna, come dimostra il suo dipinto più famoso, nel quale il Duomo di Milano sembra una cima dolomitica. Le pagine di questo volume fanno capire fino a che punto abbia indagato la città, svelandola e raccontandola con uno sguardo nel quale si mescolano passato, presente e futuro (nella parte conclusiva, intitolata “Piccole cronache del Duemila”, Buzzati immagina di farsi ibernare nel 1966 per svegliarsi trentaquattro anni dopo).

La metropoli dei commerci e degli affari – «fatta di cemento e di ferro, tutta a spigoli duri» – si mostra quindi in una sorta di sospensione tra quotidianità e angosce apocalittiche, tra una legittima ma talvolta anche un po’ losca affermazione identitaria e una crescente alienazione (come dice un passo de “I sette pilastri di Milano”, dell’ottobre 1966: «E’ la vittoria dunque del progresso, forse, la pianificazione, il condizionamento collettivo, è la salutare rinuncia a vivere per gli altri, è la fine dell’Uomo?»).

Ma soprattutto condannata a una continua, affannosa e inarrestabile corsa dietro il vento. I lacerti della tartaruga scoppiata diventano allora una metafora della misera condizione umana nelle tante “Milano” sparse sul pianeta. Buzzati la riprende nelle righe finali di uno straordinario apologo dell’ottobre 1963, intitolato “Il filo”, che riassume la sostanza della sua lucidissima, disincantata e sempre più attuale visione del mondo: «Quelli che vendono comprano battono lottano baciano mangiano stringono girano bevono, che fanno l’amore che fanno up che fanno op che parlano danzano scrivono scrivono anch’essi come me poveri pallidi disgraziati cretini di carta di gesso di nulla».

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