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Mercoledì 05 Novembre 2025
I bambini di Gaza: perchè potremo dire
che sapevamo
Recensione L’ultimo film di Kawthar ibn Haniyya interpella la coscienza sulla guerra in Medio Oriente. Protagonista una ragazzina a cui è stato tolto il futuro
Uscito nelle sale italiane il 23 ottobre e vincitore del Leone d’Argento all’ultima mostra del cinema di Venezia “La voce di Hind Rajab” è uno di quei film destinati a entrare nella memoria collettiva della cinematografia. Hind Rajab era una bambina di cinque anni rimasta bloccata nell’abitacolo di una macchina crivellata da trecento cinquantacinque colpi di un carro armato dell’esercito israeliano. Vicino a lei i suoi zii e cugini. Tutti senza vita. Hind riesce a chiamare i volontari della Mezzaluna Rossa palestinese, in Cisgiordania, chiedendo, invocando, implorando aiuto.
Solitamente quando si parla di un film se ne tratteggiano le caratteristiche, la sceneggiatura e gli aspetti tecnici. Questo, però, vale per i film belli o i film brutti. Poi ci sono i film come “La voce di Hind Rajab”: film che si ha il dovere morale di vedere. Film che interpellano la coscienza. Film che squarciano il velo di omertà del presente. E tutto ciò che è stato già scritto o detto non basta. Sì, perché in quell’ora e mezza il tempo viene dilatato dal dolore. Quando si soffre i secondi diventano minuti e i minuti ore. Durante la visione ci si sente in ostaggio, impotenti e, al contempo, colpevoli.
Tragedia attuale
Non è il primo film che parla di una tragedia ma, spesso, le tragedie vengono rappresentate solo dopo che si sono consumate. Quello che si vede sullo schermo, invece, sta succedendo e sta succedendo ora. Non si può colpevolizzare qualche avo, non si può giustificare il momento storico o trovare alibi al nostro silenzio.
L’orrore c’è: ora, davanti a noi. Ora, in Medio Oriente. Nel momento esatto in cui noi, noi e nessun altro, siamo partecipi della storia del mondo. Non i nostri nonni, non i nostri figli. Noi. E non potremo dire che non sapevamo. Tutti, in sala, sapevamo che Hind Rajab sarebbe stata uccisa dall’esercito israeliano. Eppure tutti speravamo che finisse in altro modo. Anche noi ostaggi dell’orrore della guerra. No, non guerra. La guerra ha dei codici, delle regole. Uccidere una bambina e i suoi soccorritori è guerra?
Ho guardato la voce di Hind Rajab una domenica pomeriggio. Al termine della proiezione nessuno si è alzato dalla poltrona. Tutti piangevano. Ma non era uno di quei pianti di rabbia. Non erano lacrime di indignazione. Erano lacrime di vergogna. Erano lacrime di impotenza. L’impotenza di fronte all’atrocità. L’impotenza di fronte all’ingiustizia. L’impotenza di fronte all’insensatezza del male giustificato in nome del bene: quello dell’ideale. Per tutta la nostra vita l’istruzione occidentale ha ribadito, sottolineato, la necessità di combattere ogni forma di totalitarismo e ideologia volta a sigillare il decreto della supremazia di un popolo nei confronti di un altro. Dunque che giustificazione abbiamo per il nostro silente assenteismo?
Thakla
Usciti dal cinema ci siamo promessi che avremmo fatto qualcosa. Perché se quelle lacrime si fossero perse nell’impotenza di un pomeriggio sapevamo che avrebbero tracciato la colpa insonne delle nostre notti. In arabo c’è un’espressione che è difficile tradurre letteralmente: thakla. Significa “una madre che ha perso un figlio”. Il fatto che il termine identifichi un concetto significa che è diventato un topos, una figura ricorrente nella storia palestinese. Ma questa non è letteratura e thakla non è un artificio retorico. È la Palestina: una madre costretta a piangere la morte continua dei propri figli. È la disperazione della madre di Hind Rajab.
È la disperazione del volontario Omar che intuisce che ad ogni minuto la morte si avvicina. Si dice che il dolore più grande che si possa provare sia quello di sopravvivere a un figlio. E allora, se i grandi film non sono fatti per fornire risposte ma per porre domande, l’interrogativo è semplice: cosa possiamo fare? Sperare, combattere, lottare affinché un mondo migliore sia possibile non significa credere alle favole, ma non cedere all’orrore. C’è differenza.
Una bambina che implora aiuto. Nel nostro paese avevamo già assistito a questo tipo di tragedia a Vermicino quando il piccolo Alfredino cadde in un pozzo. La disgrazia era però stata accidentale, qui invece è voluta. Quel pozzo nero dal quale si origlia l’eco di un’innocenza morente è stato creato e sadicamente deliberato dall’uomo. L’esercito israeliano sapeva che c’era una bambina in una macchina, sola, tra i cadaveri della sua famiglia. Sapeva che i soccorritori stavano arrivando. E come sapeva che si sarebbe potuta salvare, così ha deciso di ucciderla.
E questa non è la sinossi di un film, ma la trama del reale. E per quanto possa sembrare irrealistico o utopico usciti da quel cinema la lezione più importante che lo spettatore può ricevere è che, sebbene la trama sia destinata a ripetersi, bisogna far qualsiasi cosa affinché il finale non sia più lo stesso.
Definisci bambino
“Definisci bambino”, aveva chiesto Eyal Mizrahi, presidente dell’Associazione Amici di Israele, a Enzo Iacchetti a “È sempre Cartabianca.” Di Hind Rajab non si sa molto. Si sa solo che era una bambina di cinque anni. Era una bambina perché continuava a chiedere aiuto. I bambini fanno così; non capiscono esattamente cosa stia succedendo, ma hanno paura. E la paura dei bambini è la più grande. Era una bambina perché aveva il coraggio di ammettere che aveva paura. Perché da piccoli non si capisce mai fino in fondo perché le cose brutte accadano.
Era una bambina perché non capiva come mai non venissero subito a salvarla. Come mai non si può salvare subito una bambina sola e abbandonata in una macchina tra i cadaveri della sua famiglia? Ecco, la risposta corretta dovrebbe essere “Sì, si deve subito salvare.” No, non in Cisgiordania, dove si deve attendere un iter burocratico estenuante per poter soccorrere anche un bambino. Altrimenti l’esercito israeliano spara. E, purtroppo, spara anche quando questo iter è stato risolto. Hind Rajab era una bambina perché quando le è stato chiesto come stavano i suoi zii in quella macchina lei aveva risposto “stanno dormendo” perché i bambini non concepiscono la morte. Non dovrebbero mai e poi mai pensarci. Perché non si può pensare alla fine quando si è solo all’inizio. Hind Rajab era una bambina perché non capiva la guerra. “È come due famiglie che litigano” gli spiegherà la volontaria della Mezzaluna tra le lacrime. Di Hind non sappiamo altro se non che amava al mare. Solo questo. Non abbiamo avuto il tempo per scoprire quali sarebbero state le sue passioni. Se avrebbe amato dipingere, cantare, scrivere, pregare. Quali sarebbero stati i suoi cibi preferiti. Sappiamo solo che amava il mare e la sabbia.
C’è un altro termine arabo intraducibile: gurfa. Significa “la quantità di acqua che puoi tenere in mano”. In qualche modo simboleggia la vita: il tempo che possiamo e riusciamo a trascorrere in questa terra e il valore che siamo o meno capaci di attribuirgli. Trecentocinquanta cinque proiettili hanno ucciso una bambina che nelle sue manine poteva tenere giusto poche gocce d’acqua di un mare che amava… ma che non avrebbe mai più rivisto.
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