«Noi, così diversi dagli antichi Greci»: il viaggio alla ricerca dell’uomo di oggi tra le pagine di un libro

Intervista Da Giuseppe Foderaro il romanzo “Se tutti diventassero re”: un parallelo tra antichità e contemporaneità. «A noi piace pensarci eredi dei Greci, ma siamo molto diversi da loro: non erano veramente occidentali»

Se la letteratura è un antidoto contro l’oblio e un viaggio al centro dell’uomo, l’ultimo romanzo di Giuseppe Foderaro, “Se tutti diventassero re”, pubblicato da Arkadia nella collana Narratori Eclypse, ne è un esempio paradigmatico.

L’opera, il cui titolo si ispira a una massima di Pitagora, intreccia le due dimensioni spazio-temporali dell’antichità ellenica e del recente periodo pandemico svelandone l’interdipendenza e invitando il lettore a riflettere sulle radici della cosiddetta “cultura occidentale”. Come nella più classica delle Odissee, ma accogliendo i riflessi della contemporaneità, Foderaro tratta l’accidentato viaggio dell’uomo in una narrazione dettagliata, dove ogni tassello compone una mappa esperienziale del vivere. Ne parliamo con l’autore.

Il romanzo, frutto di un ampio approfondimento letterario e storico, le ha permesso di sfatare parecchi luoghi comuni sulla nostra dipendenza dal modello ellenico. Com’è nata l’idea?

Tutto nasce nel 2020, durante la pandemia, dopo il primo lockdown. Per la prima volta sono stato ad Atene e ho scritto il prologo davanti al Partenone, sotto un cielo azzurrissimo mai visto. Solo, in mezzo ai gatti. Un’emozione indicibile. E in quel luogo, ho conosciuto, per dirla con Borges, ciò che i Greci ignorano: l’incertezza (…). A noi piace pensarci eredi degli antichi Greci quando, in realtà, siamo diversi da loro. Orazio scrive “Graecia capta ferum victorem cepit”, dal momento che i Greci conquistarono il selvaggio vincitore, ma ciò non significa che gli antichi Greci fossero degli occidentali, tutt’altro, erano piuttosto dei mediorientali. Le donne indossavano il velo, vivevano in una società razzista dove l’umanità era suddivisa in maniera binaria tra civili e barbari. Anche l’idea di democrazia, se consideriamo il rapporto che esisteva tra liberi e schiavi, era molto limitata. Sono partito da queste riflessioni per spostarmi su temi che sento molto miei: lo straniero, la condizione della donna, l’opportunità.

La storia ambientata nell’antica Grecia gravita attorno all’incontro tra due personaggi: Lypsia e Balthus, figure complementari ed espressioni di due modi di intendere la conoscenza. Ce ne vuole parlare?

Lypsia è una spartiate, un’aristocratica che fugge da Sparta per evitare di essere relegata in un fazzoletto di terra e per sottrarsi a un’istituzione fin troppo regale. Teniamo presente che Sparta era una diarchia. Balthus è un mercante, un maestro di vita, di arti mediche, che trasmette una serie di conoscenze a Lypsia in accordo con lo spirito dell’epoca, dove i guaritori erano in parte dei filosofi e in parte dei cialtroni, e libera la donna dagli impacci di una tradizione opprimente. Lypsia scappa di casa senza sapere perché e trova in Balthus colui che, attraverso l’esperienza, infonde in lei la fame di sapere.

Uno dei grandi temi del romanzo è quello della dignità umana. Da un lato, una dignità irrevocabile, conferita per nascita, dall’altra, un’identità continuamente messa alla prova dalla sorte. Una dicotomia che attraversa le epoche?

Lypsia incarna la condizione della donna di Sparta per la quale l’evento fondamentale era mettere al mondo un “figlio di Sparta” di sesso maschile. Dignità ancora maggiore le derivava se il figlio moriva in battaglia, anche se le spartane rispetto alle ateniesi erano più libere. Il mio non è propriamente un romanzo storico ma un gioco di immedesimazione. Ho attribuito dei sentimenti e dei pensieri agli antichi Greci che forse non avevano. L’antichità nel mio libro è una cifra stilistica. Secondo il modello greco, la trama racconta di un viaggio con i relativi intoppi e pone al centro della storia, come facevano i Greci, la fisicità dei personaggi. Non a caso, all’inizio, assistiamo al salvataggio di un bimbo abbandonato, un incipit che connota molti libri antichi.

Nel corso del viaggio, la protagonista si confronta anche con una varietà di individui, popoli e condizioni umane. E la Grecia emerge come coacervo di culture…

Sì, è un assortimento eterogeneo di personaggi di pari grado. Volevo trasmettere la mescolanza che caratterizzava la Grecia, nonostante il carattere restio dei Greci ad amalgamarsi (…) Se la grandezza dei Romani fu quella di riconoscere la cittadinanza a tutti i non romani, trasformando gli hostes in cives, i Greci non ebbero questa lungimiranza, però nel romanzo ho scelto di dare spazio alla volontà di Balthus e Lypsia di integrare quante più culture, e personaggi ai margini della società, per farne una famiglia allargata, a dispetto della mentalità del tempo. Atena stessa, in copertina, divinità protettrice sia di Atene sia di Sparta, è una presenza che riappacifica le rivalità.

Si tratta di un messaggio rivolto ai contemporanei?

Sì. Credo che sentirsi straniero, come del resto mi sento io, sia il modo migliore per arricchirsi. L’esistenza si gioca sul filo delle opportunità, “kairos” la chiamavano i Greci. Chi non rischia non solo non “ha” niente ma non “è” niente. La morale è che, nonostante tutto, quei popoli erano più avventurosi e anticonformisti di noi perché tentavano di essere artefici del proprio destino anche contro l’accanirsi degli eventi.

È il motivo per cui i personaggi antichi si mostrano appassionati e indipendenti, mentre i contemporanei, protagonisti della seconda parte del romanzo, sono tormentati?

I Greci erano mossi dal desiderio di libertà, avevano un fuoco dentro. Ecco perché noi abbiamo bisogno del passato: per vivere una dimensione che non sia prettamente egocentrica, per sentirci individui, popoli, nazioni, per creare un’unità a partire dalle differenze. La storia ambientata nel presente è un modo per rivalutare i due protagonisti, Lypsia e Balthus, con una serie di richiami aggiunti: il tema dell’omosessualità, dello straniero, della diversità in senso lato… La stessa Taras, Taranto, è stata creata da coloni spartani che non avevano mire espansionistiche ma che cercavano casa “fuori” e nuove opportunità altrove.

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