La montagna di Sgarbi, verso l’assoluto

Libri “Il cielo più vicino” è l’ultimo lavoro del grande critico d’arte: un exursus da Giotto ai contemporanei. Un testo che ci aiuta a capire come lo sguardo umano tenta, da sempre, di misurarsi con ciò che lo sovrasta

Ci sono libri che non si limitano a raccontare qualcosa: vogliono mostrarti ciò che credevi di sapere e ti obbligano a guardarlo di nuovo, come se fosse la prima volta. “Il cielo più vicino” di Vittorio Sgarbi appartiene a questa specie rara. Non è un saggio, non è un catalogo, non è una collezione di immagini: è un’altitudine. Quella che si raggiunge quando l’arte viene sottratta alla teca e riportata nel luogo originario da cui proviene: lo sguardo umano che tenta, da sempre, di misurarsi con ciò che lo sovrasta.

Sgarbi affronta la montagna come se fosse una divinità pagana. E lo fa con quella sua prosa impastata di cultura e di corpo, che non si accontenta di descrivere: spinge, provoca, costringe. La montagna diventa un teatro verticale dove si incontrano pittori, poeti, scrittori e uomini qualsiasi che, salendo, cercano un cielo meno lontano. Il risultato è un libro che vibra di quella tensione tra ascesa e precipizio che è, da sempre, la misura dell’arte.

Genealogia emotiva

La forza del volume non sta nelle riproduzioni -pure splendide – ma nella capacità di Sgarbi di restituire una genealogia emotiva del paesaggio. Perché parlare di montagna significa parlare di ciò che l’uomo decide di sfidare quando tutto il resto gli sembra troppo facile.

Così, tra un Segantini che avvolge i pendii nella luce del “tutto è sospeso” e un Caspar David Friedrich che mette il viandante di spalle davanti all’infinito, Sgarbi non costruisce un percorso storico: ne scolpisce uno psicologico. La montagna non è un tema; è una soglia. Serpeggia, tra le pagine, l’idea che la verticalità sia la vera ossessione dell’arte. Non la prospettiva, non il colore: la verticalità. Il desiderio di andare su quando tutto tende a tirarti giù. E Sgarbi - che conosce bene il peso della tradizione- sembra qui più libero, più rarefatto, come se lo sguardo stesso si fosse acclimatato a un’aria più sottile. A tratti è lirico, a tratti è feroce, sempre consapevole che la montagna è un altare che non perdona le semplificazioni.

Il libro riesce in un’impresa rara: far parlare la montagna non come sfondo, ma come personaggio. È la montagna la protagonista. Gli artisti passano, titubanti o devoti, e ognuno lascia un frammento del proprio stupore. Sgarbi li raccoglie con cura quasi affettiva, ma non indulge in nostalgia: la sua è una lettura muscolare, viva, che fa attrito con la superficie liscia dell’estetizzazione contemporanea.

Avvertimento

La montagna, per lui, non è un luogo instagrammabile ma una ferita che continua a sanguinare bellezza. Eppure il libro non è un’apologia.

C’è dentro una consapevolezza amara, quasi un avvertimento: l’uomo guarda la montagna per ritrovare se stesso, ma più sale più scopre che quel sé è un’illusione. In questo Sgarbi si rivela sorprendentemente moderno: dietro la sua erudizione, si intravede un interrogativo che riguarda tutti noi. Che cosa cerchiamo davvero quando cerchiamo l’alto? Un punto di fuga o un punto di caduta?

“Il cielo più vicino” funziona proprio perché non risponde. Lascia aperta la tensione. A volte persino la esaspera. Sgarbi qui mette in pagina l’irrisolto senza paura. Non costruisce un discorso lineare, preferisce le crepe, i tornanti, le digressioni improvvise che sembrano smarrire il lettore per poi riprenderlo un attimo prima del burrone. Il suo stile, di solito orchestrale, diventa più concentrato, come se anche la prosa avesse bisogno di ossigeno mentre sale. Il risultato è un libro che chiede attenzione, chiede tempo, chiede respiro. Non si sfoglia: si attraversa. E, come ogni attraversamento, lascia una traccia. Alla fine ci si accorge che il paesaggio non è cambiato: siamo cambiati noi, leggermente spostati, leggermente più consapevoli della nostra piccolezza e della nostra ostinazione.

Sgarbi firma così un’opera che non aggiunge semplicemente un altro capitolo al suo monumentale dialogo con l’arte italiana: ne cambia l’altitudine. Ci ricorda che la montagna non è un tema estetico ma un esercizio di verità. E che guardarla significa, in fondo, riconoscere che abbiamo bisogno di qualcosa che ci superi. Qualcosa che, per un istante, ci renda più vicini al cielo e più lontani dalle nostre certezze.

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