La Pietà Rondanini secondo Collina

Arte Nel trigesimo dalla scomparsa del grande artista lariano, un suo testo dedicato alla scultura di Michelangelo. «Lì, davanti a quell’opera, a un certo punto dentro di me è scattata proprio una violenta, ineluttabile empatia»

Che cosa fa grande la pittura dei grandi pittori? Secondo le regole e le abitudini dovrebbe essere la bellezza, cioè la sua qualità estetica, ossia quella disciplina che appartiene alla filosofia. E così non dovrebbe essere difficile riconoscerla quando la si incontra, se non che noi usiamo questo termine per tanti soggetti tra loro troppo contrastanti, infatti definiamo bella una donna, ma anche una motocicletta…

Gli aggettivi servono per qualificare, cioè per restringere il campo di appartenenza al fine di permettere una più precisa comunicazione, e invece tutto ciò non avviene quasi mai. Magari ci intendiamo tra noi in proposito, ma solo se apparteniamo allo stesso gruppo, allo stesso clan, nel quale le parole hanno il medesimo significato. E così possiamo metterci d’accordo anche a proposito della valutazione di un’opera d’arte; questa è la ragione per la quale è giusto insistere sempre sulla necessità di costruirci un linguaggio comune per poter definire che cosa intendiamo con la parola “bello”: intenso, carico di significati, espressivo, ma anche commovente. Qualcosa che solletica tanto il nostro cuore, quanto il nostro cervello; qualcosa che aggiunge qualcos’altro a ciò che già sappiamo.

La bellezza trasforma

La bellezza, quando ci piomba addosso, ci trasforma, ci modifica, ci accresce. E la bellezza, quella dell’arte, può anche essere “brutta”. Quella bellezza può anche essere stata tale, ma non adesso, così come può all’improvviso trasformarsi nel suo contrario. La bellezza estetica è strettamente legata alla contemporaneità, infatti è molto facile che ciò che è stato bello sia poi diventato insopportabile. Impariamo a godere della bellezza, ci farà bene alla salute. Ed ecco un bell’esempio in proposito: quasi tutto il Primitivismo, quello che precede l’età aurea: le pitture rupestri, quelle della preistoria; l’arte del basso Medio Evo, quella maturata dopo la classicità dell’arte greco-romana; sempre splendida bellezza anche quando ci sembra brutta. Intensità, carica espressiva, magari senza la grazia, che è solo uno dei suoi tanti modi di mostrarsi, infatti Antigrazioso è un bell’aggettivo che ha intitolato qualche opera dell’arte moderna.

Alla parola “bello”, si dovrebbe aggiungere anche l’aggettivo “empatico”. L’arte greca è bella, l’arte etrusca è empatica; il Rinascimento è bello, il Medio Evo è empatico, e non sono giudizi di qualità. E dunque? Continuiamo pure a confrontarci davanti ai capolavori, ma magari con più attenzione, più giudizio.

Empatia

Che cos’è l’empatia? Tento una definizione: un valore che ha la straordinaria capacità di tenerci assieme, di farci sentire reciprocamente partecipi allo stesso stato d’animo.

Empatia tra persone, ma anche tra cose e persone; può succedere e quando accade è come se si fosse aperto un largo passaggio privilegiato. E così allora è bello correrci dentro in quel corridoio, da un capo all’altro e viceversa, come quando, per la prima volta, vidi dal vero “La Pietà Rondanini”, nel Museo del Castello Sforzesco a Milano. Michelangelo scultore e quel blocco di marmo alto e sottile; quasi una esercitazione più volte interrotta e poi abbandonata, come qualcosa ormai da accantonare… e invece lì, davanti a quell’opera, a un certo punto dentro di me è scattata proprio una violenta, ineluttabile empatia. Come se avessi intravisto tra le correzioni, i rifacimenti un’altra cosa, qualcos’altro. In quell’enorme “frammento”, grande come il mondo intero, lui ci ha messo tutto se stesso e anche qualcosa d’altro: le qualità, ma anche i dubbi che, soprattutto nella vecchiaia, devono averlo funestato.

Michelangelo è morto intanto che stava sopra a quell’incredibile, empatica immagine: due gambe appese, i piedi affondati nel basamento come se questo fosse di tenera creta, un braccio, ma non la spalla, monco, troncato sopra il gomito; un altro braccio, quello di Maria, che con grande fatica sostiene il busto del figlio con difficoltà e la testa di Maria appena sbozzata. Ed ecco la più pietosa delle Pietà, la più “rifatta”, ma anche la più addolorata. Non è un’opera non finita, ma una specie di intero cantiere con tutto ciò che l’empatia dello scultore con quel marmo spezzato aveva saputo immaginare: la promessa di una scultura, tutto quello che occorre a un capolavoro, nient’altro, nemmeno un colpo di scalpello in più.

Cinque sono le “Pietà” di Michelangelo: la prima è la “Pietà Vaticana” del 1499 (aveva ventiquattro anni), l’ultima la “Rondanini” del 1564 (aveva ottantanove anni) e lì dentro c’è, in quello spazio temporale, tutta l’evoluzione di un Maestro. La prima, portata a termine in breve tempo, fatta per dimostrare tutta la sua capacità, il suo magistero; la seconda, per negarli. Tra le due una corsa violenta: la cresta di un’onda nata, cresciuta, sviluppata e poi infranta. Io però voglio credere che queste apparenti contraddizioni non siano state delle sconfitte, ma semmai proprio il loro contrario, se non altro perché “La Pietà Rondanini” non può essere classificata tra le opere non finite, perché in realtà Ė FINITA COSI’. Un grumo in alto e poi una caduta lunga, ineluttabile fino al gorgo che affonda in basso fino al centro della terra.

Il 1564 è anche l’anno della morte di Michelangelo e forse, io spero, persino riappacificato con se stesso, perché secoli dopo il “non finito” sarà una tecnica innovativa, un modo non di non dire, ma di farsi capire in maniera diversa, non l’effetto di una carenza, ma semmai un appiglio in più anche per la nostra immaginazione.

Credo che Michelangelo deve aver sentito la mano tremargli con il mazzuolo e lo scalpello appena impugnati proprio perché un colpo in più avrebbe potuto cancellare la forza e la violenza di quel dolore che era lì, finito così. Già prima ci aveva provato con i “Prigioni” prigionieri della pietra che fino ad allora li aveva contenuti, ma in quel momento non aveva ancora con il bisogno di comunicare la profondità di un sentimento.

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