«Troppe forme di dominio. La base è sempre il sessismo»

L’intervista a Lea Melandri, autrice di un saggio in cui immagina un dialogo con il filosofo misogino Otto Weininger. «Nella rappresentazione dei generi si giocano le logiche di potere, ma anche le dinamiche del sogno d’amore»

Vienna 1903: un luogo e una data emblematici per quel che concerne l’evoluzione del pensiero europeo e la relazione tra i sessi, specialmente se, al tavolo di un bar, si confrontano il filosofo, misogino intransigente, Otto Weininger, e la femminista, scrittrice e insegnante, Lea Melandri.

Un dialogo impossibile ma rivelatore di una cultura tramandata nel tempo e insediatasi negli angoli più nascosti delle nostre case. Un audace confronto di cui parliamo con l’autrice.

Weininger: un giovane che a ventitré anni si toglie la vita dopo aver pubblicato il proprio saggio, vittima della propria visione del mondo. Perché ha scelto un simile interlocutore?

Mi sono confrontata per la prima volta con il filosofo austriaco negli anni ’80 quando “Sesso e carattere” uscì con un’importante prefazione di Franco Rella. Dopodiché, l’ho riletto più volte negli anni rendendomi conto che ciò che l’autore porta allo scoperto è la Ragione che, da Platone a Kant, rappresenta il filo conduttore di tutta la nostra cultura greco-romana e, infine, cristiana. Una cultura che ha dentro di sé il sessismo e il razzismo. Weininger ci pone di fronte a uno specchio e ci fa riconoscere la misoginia che è in noi, noi donne intendo, che abbiamo ereditato la visione maschile del mondo, forzatamente.

Uno dei valori del femminismo è proprio quello di prendere atto del pensiero altrui, soprattutto quando è distante dal nostro, ma nei dibattiti attuali non è proprio questo presupposto a mancare?

Si tende spesso a dividere le parti: la vittima e il nemico. Al contrario, il femminismo degli anni Settanta ha intuito che si trattava di riconoscere nell’ideologia che ci ha colonizzato e vittimizzato qualcosa che ci apparteneva. Sibilla Aleramo, all’inizio del Novecento, parlava di una visione del mondo “interiormente ammessa”, io dico incorporata, e compresa per virtù di analisi. I diari della Aleramo superano il dualismo e affermano che le donne devono prendere le distanze da ciò che hanno amato e creduto: non basta inveire contro il male, ma occorre rendersi conto che quel male ha messo radici dentro di noi.

Weininger afferma che l’odio nei confronti della donna non è altro che odio nei confronti di quel “femminile” che l’uomo porta dentro di sé. È questa la chiave di lettura del sessismo?

La parte cui Weininger fa riferimento è la sessualità, la colpa, la caduta rispetto a un ideale dell’umano che avvicina l’io intelligibile all’assoluto, all’immortalità. Il femminile è la parte che l’uomo ha allontanato da sé perché ha radici nella materia vivente e segna la finitezza dell’umano, con tutte le passioni più violente e incontrollabili (…) W. è durissimo anche con gli uomini: dice che hanno rubato l’anima alle donne, ed è per questo che le idealizzano e che si aspettano da loro una funzione di innalzamento spirituale quando rinunciano alle intenzioni di seduzione.

La necessità di stabilire una separazione e una gerarchia tra i sessi influenza anche il pensiero sociale. Misoginia e razzismo sono strettamente collegati?

Tutte le forme di dominio hanno radice nel sessismo. Alla base di ogni violenza e sfruttamento c’è la differenziazione originaria per cui il genere maschile si è imposto come pensiero, storia e cultura, allontanando da sé, proiettandola sull’altro sesso, la parte più dolorosa: il corpo. (…) Weininger si sofferma sulla costruzione ideologica dei generi, che proviene dal platonismo, e giunge a fissare il dualismo su base essenzialistica, un dualismo che, nella vita reale, non esiste in modo netto perché maschile e femminile sono inscindibili. È stata l’ideologia patriarcale a distinguerli. Nella rappresentazione dei generi com’è arrivata a noi, si giocano le logiche di potere, ma si gioca anche la logica del sogno d’amore, il bisogno di un ricongiungimento armonico delle parti.

Spesso si valuta l’emancipazione femminile sulla base del “carattere maschile” acquisito. Quale scarto del pensiero è richiesto per superare questa visione?

Aleramo afferma che il rischio per le donne, nelle battaglie per l’uguaglianza, è quello di diventare un duplicato dell’uomo facendo propria una visione maschile del mondo assimilata. Ecco perché si rende necessario un movimento di liberazione: una presa di distanza dai modelli interiorizzati che vincolano la donna a un’idea di indispensabilità. Quei ruoli ¬– seduzione, maternità, cura – non sono altro che poteri sostitutivi che ostacolano la crescita personale. Serve uno scarto di consapevolezza enorme: occorre mettere in discussione la divisione sessuale del lavoro e il genere, rendendosi conto che non esiste una polarità netta tra maschile e femminile.

E gli uomini, a suo avviso, da cosa si sentono principalmente minacciati? È davvero la perdita di potere a intimorirli o qualcosa di più profondo?

È il fatto che nella relazione morbosa adulta si è prolungata la lezione d’amore originaria tra madre e figlio. La donna è colei che garantisce all’uomo la sua sopravvivenza: la madre che conferma il bambino nella sua esistenza. Un rapporto che assume nuovi tratti nell’atto sessuale, ma sempre in una logica di potere (…) Quando la donna non è più un corpo a disposizione, viene alla scoperta la fragilità dell’uomo, la sua dipendenza, e così nascono la vendetta, il rancore, le pulsioni violente. Nel momento in cui le donne escono da un asservimento millenario, gli uomini non vedono l’individuo ma la funzione, il ruolo incarnato. E non si rendono conto di aver subìto essi stessi una mutilazione.

Che valore può avere la scrittura nel processo di emancipazione femminile?

Un valore importante. L’ho sperimentato in prima persona fin dagli anni della scuola quando, nella prima prova scritta di quinta ginnasio, descrissi la condizione che vivevo in famiglia e mi fu detto che ero andata fuori tema. Una spina nella carne che mi fece capire che le esperienze universali dell’umano rimanevano escluse dal linguaggio. È stato con i movimenti degli anni ’70 che il “fuori tema” diventò “il tema”. Da quel momento, sia nei laboratori di scrittura esperienziale sia nel mio percorso individuale, ho sempre cercato di portare al centro dell’umano quel nucleo. Si può esprimere l’indicibile con la scrittura, a patto di smuovere le profondità.

© RIPRODUZIONE RISERVATA