La ricetta per restare umani? Bastano un piatto e un sorriso

L’iniziativa Il racconto dopo l’esperienza tra gli invitati al pranzo solidale che chiude la ventiduesima edizione della Notte dei senza dimora

L’orologio segna le 10.37 quando arrivano i primi volontari: tra le mani hanno tante teglie, si fa in fretta a riempire un tavolo di ogni ben di Dio. Certo, potrebbe obiettare qualcuno, neanche in casa di riposo – giusto per menzionare uno di quei modi di dire che si usano per ridere con chi pranza con largo anticipo – si mangia così presto: è vero, ma l’occasione è speciale e non ci si può certo ridurre all’ultimo a sistemare tutto.

Passano pochi minuti e basta poco perché la squadra di “Incroci” si ritrovi al completo. Gente buona, di poche parole, che ai riflettori preferisce il lavoro duro e silenzioso. È difficile riuscire a parlare con loro in un momento di pausa, proprio perché… effettivamente non si fermano mai. «C’è tanto da fare», dicono quasi in coro quando si tenta di sentire qualche loro storia.

Uno sguardo senza pregiudizi

Inizia così il pranzo solidale, evento clou de “La notte dei senza dimora”, giunta quest’anno alla 22esima edizione. Quale occasione migliore di un piatto caldo per sentirsi accolti da una città – come Como – che, in più occasioni, ha dimostrato (e dimostra) di avere a cuore quelli che, agli occhi del mondo, sono gli ultimi? Eppure, sono persone con una storia da raccontare, con una vita alle spalle di esperienze, di disavventure, di cadute. E, magari, anche di speranza, che rischia – tante, troppe volte – di essere soffocata dall’indifferenza.

Ecco perché, edizione dopo edizione, il pranzo rappresenta una certezza: il fatto di sedersi tutti alla stessa tavola, a prescindere da tutto e tutti, non può che far bene. Come in ogni banchetto che si rispetti, c’è chi ha qualcosa in più da dire – e sembrerebbe non voler finire mai di parlare – e chi, invece, sta più sulle sue. In ogni caso, per ciascuno uno sguardo di amore, non di (pre)giudizio: tanto basta per far sentire accolta una persona.

Intanto, tra una portata e l’altra – dopo le torte salate, il piatto principale è la polenta con gli spezzatini – riusciamo a fare quattro chiacchiere con i volontari di “Incroci”. «La mia vita, dacché ho cominciato a prestare servizio alla mensa, è cambiata», ci confida Matilde. «L’esperienza di due amiche mi ha convinto a iniziare: da tempo desideravo poter dare qualcosa a chi ha più bisogno. E solo ora ho capito che basta davvero poco per fare moltissimo». Per Maria «la gioia più grande è quando vedi qualcuno riacquistare speranza nel momento in cui trova lavoro: è davvero motivo di riscatto per molti», ci racconta. «Il bello del volontariato – prosegue Lucia – è che ognuno di noi può mettere a disposizione qualcosa di sé: un po’ di tempo libero, un talento, una passione. E, assicuro, quello che si riceve è il doppio, il triplo di quel che si dà».

Essere generosi

Lo sa bene Claudia, un’altra volontaria. «Sono arrivata in mensa per mia necessità: in un momento difficile sul posto di lavoro, avevo bisogno di un luogo per confrontarmi innanzitutto con me stessa e, poi, per sentirmi utile per qualcuno. Ora, da sei anni, ogni settimana non posso fare a meno di aiutare: entri in un modo, esci sempre in un altro».

Seduti al tavolo ci sono anche Angi e Jacopo, «operatori del sorriso del gruppo “I tiramisù”». «Mi è spiaciuto – dice lei – che non si sia potuto fare il percorso sensoriale: è un’esperienza incredibile, provare per credere. Ma fa niente: oggi non c’è spazio per la delusione. Essere volontari vuol dire soprattutto essere gioiosi».

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