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Lunedì 29 Dicembre 2025
L’Oro Grigio dell’Alto Lario. Il modello circolare di Seval
Innovazione Con undici stabilimenti e il cuore a Colico, Seval Group è leader nel trattamento dei rifiuti tecnologici. Il direttore commerciale Alessandro Danesi: «Sicurezza e innovazione per la sfida delle batterie al litio»
Nichel, cobalto, manganese e litio: il recupero di preziose materie prime dai rifiuti tecnologici rappresenta oggi una delle sfide più ambiziose per il sistema Paese. Seval Group, con sede a Colico, è il principale operatore nazionale nel settore del trattamento delle batterie e dei rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche. Il direttore commerciale Alessandro Danesi, esperto di business development nell’industria del riciclo, racconta, attraverso i processi, i numeri e le innovazioni, il percorso di un gruppo familiare che è diventato un’eccellenza tecnologica italiana.
Seval group è un punto di riferimento anche per le visite didattiche e di formazione professionale: cosa rende la vostra realtà un unicum nel panorama industriale italiano?
L’eccezionalità risiede nella nostra capacità di gestire l’intera complessità del mondo dei rifiuti tecnologici. Ci occupiamo di elettronica, elettrodomestici e batterie: tutto ciò che definisce la modernità, ma che a fine vita diventa un problema ambientale se non trattato correttamente. Siamo un gruppo integrato con undici stabilimenti sul territorio nazionale. La nostra casa madre è a Colico, ma abbiamo impianti strategici a Piantedo, Balvano, Cassino e Isernia. Non ci limitiamo a ricevere il rifiuto: abbiamo creato una filiera interna dove le componenti estratte, come cavi o motori, vengono inviate ai nostri impianti specializzati, come quello di Pordenone per il recupero di polveri di rame, ferro e alluminio, o quello di Torino per le plastiche specifiche dei RAEE. Questa capillarità e specializzazione ci permettono di gestire flussi che altre realtà non potrebbero processare.
Qual è la dimensione economica del gruppo oggi?
Siamo una realtà solida, orgogliosamente italiana e legata alla famiglia Ardenghi. Attualmente il gruppo impiega circa 200 dipendenti a Colico e oltre 400 nell’intero gruppo. Per quanto riguarda i volumi, gestiamo complessivamente poco meno di 200mila tonnellate di rifiuti all’anno. Di queste, circa 55mila gravitano sull’area di Colico e Piantedo. È un numero importante che testimonia la nostra capacità di assorbimento del mercato, anche se il calcolo è complesso poiché molti materiali passano attraverso diversi stadi di lavorazione all’interno dei nostri stessi impianti. Quello che conta è la massa critica che riusciamo a generare, permettendoci investimenti tecnologici che per un piccolo operatore sarebbero insostenibili.
L’obiettivo finale è la rigenerazione dei materiali: quali sono i tassi di recupero che riuscite a garantire e quali materie prime tornano effettivamente nel ciclo produttivo?
Il nostro compito è rigenerare i materiali degli apparecchi elettrici ed elettronici per l’industria. Riusciamo a recuperare tra l’80% e il 90% del materiale conferito. Questo significa che la stragrande maggioranza di ciò che ritiriamo torna a essere utilizzabile, magari non direttamente dopo il nostro passaggio ma risalendo la catena del valore. Estraiamo ferro, alluminio e rame in grandi quantità. Inoltre, prepariamo concentrati per le fonderie da cui si ricavano metalli nobili e preziosi come palladio, oro e argento. Seguiamo rigorosamente la gerarchia dei rifiuti: prima il riutilizzo, anche se è molto difficile per oggetti esposti alle intemperie nelle isole ecologiche, poi il riciclo di materia e il recupero energetico. Infine lo smaltimento in discarica che rimane l’ultima opzione solo per gli scarti minimi e irrecuperabili, che nel nostro caso sono limitati a pochi punti percentuali.
Come si svolge il processo dal punto di vista dei cittadini che conferiscono il rifiuto elettronico?
Quello che il cittadino vede è l’isola ecologica o la piattaforma di raccolta. Da lì, il rifiuto arriva a noi, che siamo un centro di recupero. La messa in sicurezza è la prima e fondamentale attività che spesso passa inosservata: i rifiuti elettronici contengono acidi, oli e gas potenzialmente pericolosi. Rimuovere queste sostanze prima del trattamento meccanico è essenziale per evitare di immettere sul mercato materie prime seconde inquinate o nocive per l’ambiente. Senza questo passaggio preventivo, non potremmo parlare di vera economia circolare.
La vostra distribuzione geografica copre quasi tutta l’Italia, ma Colico rimane il centro nevralgico: come è nata l’idea di investire in questa zona e come gestite la logistica, considerando che il rifiuto è un materiale a basso valore aggiunto?
La scelta di Colico è legata alle radici del fondatore, Roberto Ardenghi. Ha iniziato nel 2000 come piccolo artigiano e ha avuto la lungimiranza di reinvestire ogni utile nell’azienda. Questo ha permesso di costruire economie di scala e un vantaggio tecnologico che oggi ci rende difficilmente insidiabili, nonostante la posizione geografica non sia ottimale dal punto di vista logistico. Copriamo tutto il nord-ovest, la Sardegna e, grazie agli impianti del sud, l’intero meridione compresa Roma. Il nord-est rimane per ora una zona dove la nostra presenza è marginale per via della concorrenza e dei costi di trasporto, che incidono pesantemente sulla marginalità. Se dovessimo crescere ulteriormente nel Triveneto, servirebbe una nuova localizzazione dedicata.
Il settore sta affrontando una trasformazione radicale dovuta al cambiamento dei prodotti di consumo: come vi state adattando, specialmente riguardo alle batterie al litio?
È un cambiamento epocale. Se dieci anni fa nei negozi di elettronica quasi tutto aveva una spina, oggi quasi tutto ha una batteria. Questo cambia la natura del rifiuto e i rischi connessi. Le batterie al litio hanno la tendenza a incendiarsi se degradate o trattate impropriamente; è un problema che riguarda tutto il mondo dei rifiuti a livello globale. Dopo alcuni incidenti accaduti tre anni fa, abbiamo investito oltre un milione e mezzo di euro in sicurezza antincendio, nuovi protocolli di stoccaggio frazionato e sistemi automatici di controllo. Abbiamo imparato ancora di più che questi materiali complessi richiedono una professionalità estrema: non si può improvvisare.
A tal proposito, Seval sta investendo in nuovi impianti industriali per il riciclo delle batterie delle auto elettriche: ci cosa si tratta?
Siamo in prima linea nella costruzione dei primi due veri impianti industriali in Italia per il trattamento delle batterie al litio da autovetture e sistemi fotovoltaici, uno a Colico e uno a Balvano. Finora in Italia esistevano solo piccole realtà laboratoriali. Noi utilizzeremo la tecnologia tedesca Duesenfeld, un processo brevettato per il quale abbiamo accordi di licenza e paghiamo royalties. È un passo fondamentale verso l’autonomia strategica: da queste batterie recupereremo nichel, cobalto, manganese e litio. È il primo passo di una filiera che può rendere l’Italia meno dipendente dalle importazioni di materie critiche.
In un settore così tecnico, la ricerca di personale qualificato rappresenta un ostacolo alla crescita?
Trovare personale adeguato è diventato estremamente complicato negli ultimi anni. La nostra struttura richiede uno spettro di figure molto ampio: dai profili manageriali agli ingegneri ambientali, dagli esperti di logistica fino agli operatori specializzati nella movimentazione di mezzi pesanti. Essere tecnologicamente avanzati non basta; servono persone capaci di interpretare i dati e gestire macchinari sofisticati in totale sicurezza. La formazione interna è diventata una parte integrante del nostro quotidiano.
Il futuro del riciclo sembra dunque passare per una concentrazione industriale sempre maggiore: qual è la sua visione per i prossimi anni?
Il mercato richiede competenze sempre più verticali. La storia di Seval dimostra che la crescita è possibile attraverso l’investimento continuo. Il riciclo delle batterie al litio sarà il prossimo grande pilastro dell’economia circolare europea. Entro marzo 2026 contiamo di avviare i nuovi impianti a regime. Questo significa riportare all’industria materiali nobili che oggi fatichiamo a reperire sui mercati mondiali. Gestire questi flussi non è più un’attività meccanica di basso profilo, ma una vera e propria ingegneria dei materiali che richiede visione, capitali e una profonda responsabilità verso il territorio.
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