Caccia al gas africano quanti rischi per noi

Il discorso di Mario Draghi al Parlamento europeo di inizio maggio ha, finalmente, rimesso al centro della politica estera due priorità geopolitiche fondamentali: i Balcani e l’area “Mena” (Middle East-North Africa), regioni chiave per la nostra proiezione oltre le acque dell’Adriatico e del Mediterraneo. Proporre l’Italia come ponte tra Europa e Africa e affidarle il ruolo di perno strategico dell’Unione europea verso sud è stata, a dire il vero, una costante fin dal secondo dopoguerra: mai come ora, tuttavia, con il fronte orientale nostro malgrado sempre più instabile e con la pressione migratoria africana in drammatica crescita nei prossimi decenni, guardare verso meridione è stato così importante.

Sebbene le parole di Draghi a Strasburgo si riferissero, almeno formalmente, al Sahel come confine ultimo della geografia di interesse italiano - quella del cosiddetto Mediterraneo allargato - appare evidente la necessità, scaturita dal conflitto russo-ucraino, di volgere lo sguardo ancora un po’ più a Sud, fino a quell’Africa australe che poco conosciamo e di cui poco sentiamo parlare. Una regione remota, riesumata dai planisferi della Farnesina per incrementare, insieme all’offerta di paesi come Libia, Algeria, Egitto e Nigeria, l’afflusso di gas verso l’Italia alla luce della riduzione delle forniture dalla Russia.

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