
Ordine / Como città
Domenica 18 Maggio 2025
Lo sport che educa non forza i limiti
La differenza la fa l’allenatore delle giovanili. Deve essere capace di insegnare e avere obiettivi diversi da quelli delle “prime squadre”. A volte può persino dover scegliere di perdere

Per educare attraverso lo sport occorre essere eccellenti educatori e occorre soprattutto far dire allo sport ciò che lo sport di per sé non dice, caricarlo di un valore educativo che di per sé esso non ha.
Questo significa prima di tutto differenziare nettamente la figura dell’allenatore delle squadre giovanili dall’allenatore delle cosiddette “prime squadre”. Per il primo lo sport è al servizio dell’educazione (“dal momento che il ragazzino talentuoso ha offeso un compagno in allenamento, allora non lo convocherò per la partita di domenica“), per il secondo, se è un allenatore decente, è esattamente il contrario (“dal momento che voglio vincere è meglio avere una squadra nella quale non si litiga”).
Il valore della sconfitta
Il valore educativo della sconfitta è qualcosa di diverso se si utilizza una sconfitta per insegnare qualcosa alla squadra (caso da allenatore di adulti) o se si sceglie di poter perdere (lasciando in panchina il ragazzino forte ma presuntuoso; scegliendo di far calciare fuori il rigore ingiustamente assegnato a proprio favore); e non ha senso dire che l’allenatore deve “anche” essere “un po’” educatore; a parte il fatto che questo vale anche per il farmacista, il dato essenziale è che l’educazione non si vende a peso, e che o si è educatori o non lo si è (meglio: o si fa l’educatore o non lo si fa)
L’allenatore delle squadre giovanili deve insegnare lo sport. Per cui egli in-segna, segna-dentro, lascia una traccia indelebile nei corpi e nei cuori dei ragazzi. Ma se è un educatore allora per lui lo sport deve essere il mezzo e non il fine del suo rapporto con i ragazzi. Ciò vuol dire che egli deve sapere che cosa significa insegnare: dunque può preferire perdere una partita piuttosto che vincerla, come negli esempi riportati sopra; deve essere un modello di puntualità, di comportamento, di linguaggio; deve avere una metodologia, saper valutare, saper documentare, saper argomentare le proprie scelte, sapersi relazionare con i genitori; deve sapere che insegnare il calcio (come qualsiasi altro oggetto) è del tutto impossibile se non si riflette su come si è imparato a giocare a calcio, ovvero deve sapere che l’attività autoriflessiva è la chiave di volta di ogni attività educativa; deve insegnare il fair play, il che è possibile se si sa giocare bene, se il gioco è entrato sotto la propria pelle quasi come una seconda natura, perché il rispetto per l’avversario non passa solamente per la stretta di mano alla fine della partita ma soprattutto nella capacitò di batterlo lealmente e giocando bene deve essere il primo a conoscere e rispettare le regole , siano esse le regole del gioco ma anche il senso delle regole di spogliatoio (la puntualità, il cambiarsi insieme, il linguaggio. il rispetto degli oggetti degli spazi); deve sapere che la tecnica non può limitarsi a mera ripetizione di gesti ma deve tradursi in un “far bene le cose”, nella capacitò di operare scelte tecniche ragionate tra differenti opzioni, deve infine saper che la tattica è importante se cresce con la squadra e se diventa la manifestazione esteriore delle caratteristiche dei giocatori.
Il giorno più brutto
Diamo infine la parola a Rebecca, 8 anni: «Forse sono l’unica bambina al mondo a cui non piace l’attività di educazione motoria e per questo in molti mi considerano strana. Non c’è un motivo preciso per la mia disapprovazione contro la palestra, so solo che non mi piace. Negli ultimi tempi abbiamo iniziato a giocare a pallavolo. Questo sport proprio non mi piace, infatti, ogni volta che batto, non mando mai la palla oltre la rete. Il momento più brutto è stato quando la maestra ci ha comunicato quell’ orrenda notizia. All’inizio ero entusiasta ma, dopo cinque minuti, quello sport mi aveva letteralmente rovinato la giornata. Volevo sempre stare in panchina ma, prima o poi, tutti venivano chiamati a giocare. Sarà stato perché avevo tolto gli occhiali, sarà stato perché ho sbagliato il tiro, fatto sta che non ne facevo una giusta. Alla fine dell’ora ero delusissima. Quello fu uno dei giorni più brutti (se non il più brutto) per fare sport».
Vorremmo dire a Rebecca che siamo dalla sua parte: perché lo sport è uno spazio di libertà, ma per fortuna non è l’unico possibile, perché il gioco (che è la radice dello sport) è fine a se stesso e, come l’amore e come la libertà non può essere imposto, perché si può crescere bene anche senza sport. E perché il corpo veramente libero è il corpo che - volendo - si sottrae alla disciplina sportiva; e lo fa soprattutto quando questa diventa troppo coercitiva e ossessiva o semplicemente quando è ora di smettere.
E allora il vero sport deve educare a finire, a non continuare oltre i propri limiti, a lasciar morire le nostre emozioni, suscitate da una palla o da una racchetta, e a rivolgersi ad esse con memorabile gratitudine e grata memoria.
Citando De Gregori
Lo sport non è la vita; e allora dopo lo sport occorre vivere; restituire i corpi alla loro polisemia, alla loro anarchia, agli altri dispositivi dell’educazione e soprattutto del mondo; e ricordare con ironia la partita persa o il record stabilito (e per fortuna ora abbattuto da altri) come quei giocatori tristi (ma perlomeno non ridicoli) che “hanno appeso le scarpe a qualche tipo di muro/e adesso ridono dentro al bar”.
© RIPRODUZIONE RISERVATA