Se il Lago di Como rinuncia al suo nome

Ai turisti stranieri si evita accuratamente di citare la parola “Lario”, ormai sconosciuta anche a molti italiani. Così vanno perduti duemila anni di storia e di diatribe etimologiche

«Eviti di usare la parola Lario. Non capirebbero». Una richiesta che mi è capitato di sentire da editori, addetti alla promozione turistica e direttori di musei, al momento di chiudere un libro, piuttosto che una mappa o una mostra: «Se vuole - ha aggiunto qualcuno - la lasci nel testo italiano, ma è inutile inserirla nella traduzione in inglese». Fino ad oggi ho accondisceso, ma mi chiedo, ed estendo la domanda a voi lettori, se sia giusto.

L’accondiscendenza del passato deriva dal fatto che nella comunicazione, così come nella divulgazione culturale, è importante per prima cosa farsi capire e, in effetti, è difficile aspettarsi che un cittadino inglese, piuttosto che americano o indiano, conosca il “vero nome” del Lake Como. Però - e qui scatta la riflessione successiva - se rinunciamo persino a pronunciarlo, forse contribuiamo anche noi ad appiattire l’immagine di un paesaggio che sta diventando oggetto di un consumo di massa mordi e fuggi, limitato ai luoghi più o meno meritatamente famosi.

Da Virgilio a Giovio

Il “Larius Lacus”, che Virgilio nelle “Georgiche” (31 a.C.) definì “maximus” (letteralmente “il più grande”, ma spesso interpretato, soprattutto dagli autoctoni, come “il più bello”), è stato raccontato, con successo, al mondo, dai più importanti scrittori nati sulle sue sponde, a partire da Plinio il Vecchio nella prima enciclopedia dell’umanità, la “Naturalis Historia” (77 d.C.) fino almeno a Paolo Giovio e Sigismondo Boldoni, autori delle prime “guide turistiche” di successo internazionale, la “Larii Lacus vulgo Comensis descriptio” (scritta nel 1537, stampata a Venezia nel 1559) e il “Larius” (1617).

Sulla scorta dell’impatto della pubblicazione gioviana, e della mappa ad essa allegata, il “Lacus Larius” entrò da protagonista nel primo atlante della storia, il “Theatrum Orbis Terrarum” pubblicato nel 1570 dal cartografo fiammingo Abramo Ortelio e ristampato in una trentina di edizioni fino al 1612: si guadagnò l’intera parte superiore di una doppia pagina e sotto di sé aveva nientemeno che Roma con tutto il Lazio, da un lato, e il Friuli dall’altro.

Mary Shelley e il Lago di Lecco

Non meno importante è ricordare che l’entità geografica e culturale sottesa alla parola “Lario” è una parte fondamentale dell’identità di tre province e delle connessioni che le legano fin dai tempi antichi. In primis quelle di Como e di Lecco, va da sé, ma non va comunque dato per scontato visto che per decenni si sono raccontate al mondo, e ancora in parte lo fanno, come mondi separati e che periodicamente emergono discussioni sull’esistenza o meno del “Lago di Lecco”: a questo proposito, i lecchesi saranno felici di sapere che nei suoi “Rambles in Germany and Italy”, Mary Shelley cita per ben tre volte il “Lake of Lecco” (trovate i dettagli nell’edizione italiana del volume, “A zonzo sul Lago di Como”, curata da Claudia Cantaluppi e da chi scrive per Sentiero dei Sogni). Ma il “Lario” rappresenta anche una parte della magia della provincia di Sondrio, che dopo aver offerto ai viaggiatori vertiginose vedute alpine, li accompagna fino alla sponda del “lacus parvus” (il “lago piccolo”), quello di Mezzola.

Per Plinio, come per Giovio e oltre, il Lario iniziava a Como e finiva a Samolaco (in latino, non a caso, Summus Lacus). Poi i fenomeni alluvionali da cui è nato il Pian di Spagna hanno progressivamente ristretto la congiunzione tra i due bacini lacustri e dal XVII secolo si è rafforzata l’identificazione del Lago di Mezzola come una cosa a parte, ma tuttavia sempre complementare rispetto al Lario. Basti pensare al “Voyage pittoresque au lac de Come”, raccolta di quindici vedute ad acquerello del pittore svizzero Johann Jakob Wetzel, pubblicata nel 1822, che comincia a Riva (di Mezzola) e finisce a Como e Lecco. L’itinerario dipinto e descritto da Wetzel è lo stesso compiuto da tutti i mercanti, gli scrittori e gli artisti portati in Italia dal Corriere di Lindau, attivo dal 1322 al 1826. L’acqua è stata la via maestra fino alla creazione delle strade carrozzabili lungo le sponde - la Statale 36 sul ramo lecchese (1823-1832), la Regina (1910 circa) e la Lariana (1911-1917) su quello comasco - e anche oltre, essendo il passaggio al trasporto su gomma andato a regime dagli anni ’50.

Interessanti sono anche le diverse ipotesi emerse nel tempo rispetto all’origine etimologica della parola “Lario”. Ortelio, nel suo atlante, prende per buona la versione secondo cui deriverebbe da un volatile «grandemente diffuso» in loco, la folaga, in greco “larios”. Invece Giovio, nella “Descriptio”, si rifà a quanto sostenuto da Catone nelle “Origini” (II sec. a.C.), ovvero che siano stati gli etruschi a chiamare “Lario” il lago di Como, ritenendolo il “principe” dei laghi italiani. Da qui, a parere di Giovio, discenderebbe il già citato “Te, Lari maxime” di virgiliana memoria. Per la cronaca, negli ultimi cento anni ha prevalso la tesi del grande linguista emiliano Alfredo Trombetti (1866-1929), secondo il quale Lario deriverebbe da una radice preindoeuropea “lar-” (“luogo incavato”).

Comunque sia, non è un peccato nascondere tutta questa storia a chi visita oggi il “Lake Como”? Forse potremmo adottare il plurilinguismo già presente nella mappa del 1618 che vi proponiamo al centro della pagina: in cima, il cartografo olandese Jodocus Hondius, ha scritto in francese “Lac de Come”, utilizzando quella che allora si stava affermando come lingua franca internazionale, al pari dell’inglese ai giorni nostri, sul bacino lacustre invece si legge “Lago di Como” e in basso a sinistra “Larius Lacus”. Oggi, poi, se uno proprio non sa che cosa sia il “Lario” può sempre interrogare Internet. A proposito: va approfondita la parte della voce “Lago di Como” dedicata al suo nome storico su Wikipedia, prima fonte mostrata da google.

© RIPRODUZIONE RISERVATA