I pazienti con un dolore cronico aspettano anche 10 anni prima della giusta terapia: «Serve una corretta informazione»

Patologia Una recente ricerca conferma che in presenza di disturbi e sintomi il 25% dei pazienti non si rivolge al medico: «Eppure le possibilità di successo della terapia antalgica sono maggiori quanto meno tempo si aspetta ad agire»

Per diagnosticare il dolore cronico un paziente su cinque impiega dieci anni.

Non è una questione di liste d’attesa, ma di corretto approfondimento medico attraverso la giusta specializzazione. Con ogni probabilità il vero problema risiede nella scarsa informazione circa questa grave patologia.

Una ricerca medica di recente pubblicazione, condotta della “Boston scientific” a luglio a livello europeo ed anche italiano, ha dimostrato come prima di avere una corretta diagnosi i pazienti, non trovando pareri adeguati e risposte adatte al loro bisogno di cura, attendano fino a dieci anni. Più nello specifico, venendo ai soli dati che ci riguardano più da vicino, «in Italia a fronte di disturbi e sintomi non ha contattato uno specialista esperto di dolore cronico il 25,7% dei pazienti, il 15% ne ignorava l’esistenza, il 13% non ha trovato soluzioni idonee nel proprio territorio mentre addirittura un paziente su dieci, circa l’11%, ha rinunciato per mancanza di coperture economiche».

La ricerca, basata su 2mila pazienti italiani, fa emergere che nel nostro Paese «il 19,1% degli uomini, cioè uno su cinque, può attendere anche dieci anni per arrivare ad una corretta diagnosi di dolore cronico, la percentuale si attesta all’11,2% per le donne, uno su dieci circa». Per colpa del dolore cronico, si legge nella ricerca,mediamente un paziente su cinque ha abbandonato il lavoro, il 23% delle donne.

Anni di attesa

«I pazienti che giungono alla nostra osservazione, nella maggior parte dei casi lo fanno dopo molto, troppo tempo – spiega Giovanni Frigerio, responsabile del Centro di terapia del dolore dell’istituto clinico Villa Aprica nonché presidente italiano della International Neuromodulation Society - e dopo molti trattamenti infruttuosi. Le possibilità di successo della terapia antalgica sono maggiori quanto meno tempo si aspetta convivendo con il dolore cronico».

A proposito di informazione però, intanto, che cosa s’intende per terapia del dolore cronico?

Non soltanto farmaci

«È un insieme di trattamenti che mirano a risolvere o a ridurre in maniera significativa un dolore che si manifesta in un arco importante di tempo - dice Frigerio - in genere da almeno tre mesi. Sono trattamenti non solo farmacologici, possiamo intervenire con delle infiltrazioni, con la chirurgia mini invasiva, con impianti di neurostimolazione, con la denervazione e con tutte le terapie fisiche. Il dolore può durare anche tutta la vita, in generale più si attende più diventa complicato curarlo e gestirlo».

La terapia del dolore però è poco considerata, è un’ultima spiaggia, cittadini e medici prima si rivolgono ad altri tipi di soluzioni senza risolvere il problema. Il dolore cronico alla schiena, alle ossa, ai nervi è durevole e spesso invalidante. Altra cosa è il dolore acuto, una ferita o un trauma che ha bisogno subito di un trattamento, come pure il dolore oncologico, provocato da una malattia tumorale.

«Le criticità per cui i pazienti con dolore cronico non arrivano o arrivano dopo anni di attesa ad un centro di terapia del dolore sono di ordine organizzativo e culturale – dice Laura Demartini, responsabile della Terapia del dolore alla Maugeri di Pavia -. Primo perché, nonostante siano trascorsi 12 anni dalla promulgazione della legge e le Regioni abbiano deliberato in merito alla rete di terapia del dolore, non sono stati effettuati gli accreditamenti e i passi necessari a renderla una realtà. Secondo perché i medici di medicina generale, ma anche diversi specialisti, spesso non conoscono le opzioni diagnostiche e terapeutiche fornite dai centri di terapia del dolore e pensano a delle cure palliative non mirate alla causa del dolore». Il risultato è l’attesa e la mancanza di cure.

«Ritengo che la scarsa conoscenza dei percorsi e delle prestazioni effettuati dalla rete di terapia del dolore – commenta Paolo Notaro, direttore della Terapia del dolore al Niguarda di Milano - sia tuttora una delle principali cause dei ritardi nell’appropriatezza degli invii alle strutture. Malgrado la terapia del dolore sia riconosciuta come disciplina ospedaliera dal 2018 con una legge che dal 2010 sancisce il diritto alla cura del dolore in tutti i contesti ospedalieri e territoriali. Il ritardo nell’invio dopo anni dall’inizio della sindrome dolorosa rende complesso l’approccio con i malati. Il dolore perdurante impatta infatti su diverse dimensioni come la sfera psicologica, relazionale oltre che fisica trasformando il dolore da sintomo iniziale in dolore globale e malattia-dolore. Nei pazienti con dolore complesso  è necessario un approccio multidisciplinare e il ricorso alle tecniche mininvasive ad alta tecnologia per contrastare il dolore là dove si genera e sugli stessi meccanismi di amplificazione. È evidente che il ritardo di cure appropriate rischia di peggiorare drammaticamente la qualità di vita dei malati».

Una patologia non riconosciuta

«I dati che emergono da questa ricerca – dice Giuliano de Carolis, terapista del dolore dell’Azienda ospedaliera universitaria di Pisa - confermano la preoccupante situazione di una patologia altamente invalidante e non adeguatamente trattata quale è quella del dolore cronico. Questo, di fatto, è ancora più grave considerando che oggi abbiamo a disposizione strumenti terapeutici anche non farmacologici che sarebbero in grado di alleviare le sofferenze dei pazienti . Purtroppo, gli anni pandemici che ci stiamo lasciando alle spalle non hanno fatto altro che peggiorare ulteriormente lo scenario italiano dove molti centri e ambulatori di terapia del dolore sono andati in sofferenza e, purtroppo, alcuni stentano ancora oggi a ripartire a pieno regime. Siamo consapevoli che stiamo entrando in un periodo difficile ma ci auguriamo che il nobile impegno della politica possa avere sempre come fine la cura della malattia e la salvaguardia della salute, nel rispetto pieno della dignità della persona».

Difficilmente si parla di dolore cronico, anche la singola persona tende ad accettare il male, a conviverci. Questa patologia non viene riconosciuta e presa sul serio. «Dei pazienti che arrivano alla nostra struttura – spiega Leonardo Consoletti, direttore della Medicina del dolore degli Ospedali riuniti di Foggia - solo un terzo ci viene inviato dal medico di medicina generale. Meno ancora dai colleghi specialisti. Funziona moltissimo il passaparola tra pazienti ed è in crescita l’affluenza diretta mediata dalla ricerca sul web».

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