In una foto l’emblema
del dolore supremo

La morte ci fa paura perché è il nostro destino. Il nostro futuro. La nostra prospettiva. A un certo punto la luce si spegne, quattro lacrime, due palate di terra e fine della storia. Tutto andato. Di te, delle tue emozioni, dei tuoi sogni, dei tuoi tradimenti, delle tue vigliaccherie grandi e piccole temi che non rimarrà niente. Niente di niente, polvere gettata nel turbine dei millenni governati da interminati spazi, sovrumani silenzi, profondissima quiete.

È per questo che non la accettiamo. La fuggiamo. La esorcizziamo in tutti i modi possibili, anche i più patetici, nella pretesa ridicola di

scappare dalla partita a scacchi che il crociato del “Settimo sigillo” di Bergman gioca con Lei in riva al mare. Niente da fare: la partita è truccata, la sorte già scritta ed è solo la fede, solo quella, che tiene accesa la fiammella della speranza. È un dilemma eterno, che accompagna la nostra storia dai secoli dei secoli e che però negli ultimi settant’anni ha subìto un cambiamento così profondo e antropologico da farci cambiare radicalmente la nostra visione della fine. Decenni senza guerre, senza stermini, senza carestie e fame e stragi di popoli, insomma, senza più bisogni primari, hanno segnato il progresso più incredibile e benemerito delle condizioni di vita della civiltà, ma al contempo ci hanno trasformato in un’umanità di gente spaurita, di conigli, di fifoni, di codardi. La nostra società crede che il cielo sia vuoto e quando il tempo spazza i sepolcri con le sue fredde ali non ci sia più alcuna armonia che vinca di mille secoli il silenzio. La morte scompare così dal nostro orizzonte, cancellata, congelata, rimossa come un accidente molesto che non si può e non si deve vedere. Non è più parte di noi. Si muore nascosti da mille veli, scaraventati nel ripostiglio delle cose smesse, delle vergogne da ovattare, rottura insopportabile del perfettissimo ciclo della vita e delle sue magnifiche sorti e progressive. E si può ben capire il perché: la morte non è un pranzo di gala, la morte è livida, è una roba che fa paura, una roba che fa schifo.

Questo è il punto. La morte non si deve vedere. I bambini si spaventano, le mamme si atterriscono, la società deve pensare sempre in multicolor, il total black non fa per lei. La pubblicazione alcuni giorni fa della foto del bimbo comasco in fin di vita abbracciato dalla madre - unitamente alla massiccia informazione sul caso delle tre bambine uccise dalla mamma a Lecco - ha creato grande dibattito tra i nostri lettori. Reazioni forti, lettere piene di angoscia, di polemica, spesso di astio. Che cosa significa quella foto, perché abbiamo deciso di pubblicarla? Sciacallaggio? Cinismo? Infamia morale pur di vendere qualche copia in più? Voyerismo vergognoso sulla pelle di una tragedia comunque ingiustificabile anche se quella immagine è stata donata alla nostra Manuela Clerici - cronista colta e sensibile; cronista di razza- proprio dalla stessa famiglia? Chi scrive questo pezzo, per quel che vale, ci ha visto una cosa tutta diversa. La rappresentazione perfetta, da premio giornalistico, del dolore supremo. Il dolore assoluto. Il dolore in quanto tale. La sua cognizione. Il suo abbraccio lunghissimo che lega tutti gli esseri umani a prescindere dalle epoche e dalle latitudini. Il dolore della madre che sta per perdere il proprio figlio. Questo è il punto di non ritorno, oltre al quale le parole non servono più e che tutti possono condividere. Questa è la vera community, altro che facebook. Quella foto è una emozione senza pari, riunisce attorno a sé la comunità dei dolenti, non quella degli sciacalli, rompe i canoni e il grigiore che ottunde i nostri cervelli. È la Pietà. La Deposizione del Cristo crocifisso. Lo scandalo dell’ingiustizia assoluta. Una madre che perde il figlio. Avete capito? Una madre che perde il figlio. Una madre che perde il figlio. Questa è la notizia.

E fa scandalo, appunto. E ci spaventa, è inevitabile che sia così. Chi non trema quando vede uscire i propri ragazzi in motorino? Chi non aspetta col cuore in gola che la porta di casa si apra finalmente nella notte più profonda del sabato? Quante ne abbiamo viste di mamme – e di papà – portare i loro cuccioli al cimitero e affrontare da lì in poi una cosa che non è più vivere, ma sopravvivere a se stessi? Chi scrive questo pezzo sapeva perfettamente quali e quante reazioni avrebbe suscitato quella foto e ha indugiato, anche un po’ tremato, forse sbagliato. Poi, però, ha pensato a quali sono gli scandali veri ai quali ormai ci siamo tutti quanti assoggettati, succubi dell’insensatezza che segna la nostra civiltà del consumo stolto, dei luoghi comuni e del conformismo filisteo e che vengono riversati quotidianamente su tutti i canali di informazione, dalla più internazionale delle televisioni all’ultimo dei blog di quartiere. E quindi ha deciso.

La foto di una madre che abbraccia il figlio che muore è uno scandalo. Se invece sbatti in prima pagina un tale dandogli del ladro, del cocainomane, del pedofilo e dopo due mesi si scopre che non era vero e sulle accuse hai fatto paginate e titoloni e sull’assoluzione invece un trafiletto di dieci righe quando ormai è un uomo distrutto, quello invece va bene. Lì non si indigna nessuno. È normale. Di lettere non ne arrivano. Grufolare nel truogolo delle intercettazioni di telefonate private e senza alcun rilievo penale, tanto l’obiettivo è rovinare le persone senza neanche il diritto alla difesa, quello va bene, non si indigna nessuno. Orchestrare fanghigliose campagne contro politiche donne che hanno fatto carriera a colpi di materasso anche se le prove non ci sono - ma solo quelle di una certa parte, perché quelle dell’altra sono tutte sante, poetesse e navigatrici - invece va bene. Non si indigna nessuno. Lì la parità di genere non conta. Le valanghe di tette e culi e schifezze da suburra, da cloaca, da vomito dei reality e dei talent e le bambine trasformate (dalle mamme) in lolite in certe trasmissioni e in certi film e in certa stampa di serie Z, quelle vanno bene, quelle i minori le possono guardare e abbeverarsene tranquillamente, nessuno scandalo. Di lettere non ne arrivano. Tanti Tg e giornali proni nei confronti del padrone del vapore di turno, mentre se arriva un poveraccio qualsiasi a rivendicare le proprie ragioni chissenefrega, portatelo via e buttate pure la chiave, quello invece va bene, non si indigna nessuno. Lo scandalo vero è la gente da niente che continuiamo ad accreditare come maestri di pensiero, come esegeti della realtà. Farisei. Sepolcri imbiancati. Santoni forforosi e pudibondi della doppia morale, della lobotomia delle emozioni, del politicamente corretto, del pensiero unico, dell’indignazione in servizio permanente effettivo.

La foto di quella madre rappresenta il mondo. Lo abita completamente. E sapete perché? Perché risponde a una domanda alla quale non si può sfuggire: tutti abbiamo un dolore, perché non possiamo condividerlo? Non scappiamo dalla morte, guardiamola in faccia, attendiamola con coraggio e contrapponiamole questa Madonna lariana che piange per il suo bambino. Lei è noi, noi siamo lei, uno vale davvero uno, questa volta. Solo così tutto questo dolore un giorno ci sarà utile e ci lascerà la speranza che dopo la morte ci sia la vita eterna.

[email protected]

© RIPRODUZIONE RISERVATA