La guerra infinita
tra Como e la Ticosa

Ci deve pur essere da qualche parte una targa. La motivazione già è presente: “Colui (o colei) che ha compiuto l’impresa del recupero dell’area ex Ticosa”. Il nome manca ancora: forse qualcuno, con un eccesso di ottimismo lo aveva pure scritto il giorno in cui ha affisso i manifesti con su “problema risolto”. Poi lo si è dovuto cancellare. Questa targa servirà, un giorno, per l’intitolazione di una via o di una piazza come quelle dedicate a Cavour, Garibaldi e Mazzini. Un’esagerazione? No, visto che trovare la quadra per l’utilizzo di quel maledetto pezzone di terra è diventata un’impresa eroica quasi come quelle per fare l’Italia. Che poi c’è voluto molto meno tempo a unire il paese (22 anni dalle Cinque Giornate di Milano alla presa di Roma) che non sistemare l’ex Ticosa, in attesa dal 1982 cioè da 36 anni. Dite che nel computo risorgimentale bisognerebbe considerare anche Trento e Trieste e tirare in là fino al 1918? Ok, allora forse si va in pari.

La campagna della Ticosa è come quella di un esercito che avanza e batte in ritirata dopo disfatte rovinose. Il ritorno dell’area al Comune è un ripiegamento tattico inevitabile a causa dei disastri causati non tanto dall’accordo sottoscritto dall’amministrazione Bruni (quella degli improvvidi manifesti celebrativi) e la multinazionale Multi per la vendita dell’area. Bensì dalla mancata previsione sul crollo del mercato immobiliare conseguente alla crisi economica e, soprattutto, dalla decisione di radere al suolo i resti della tinto stamperia che lì aveva operato, senza immaginare quello che si sarebbe trovato nel sottosuolo di un’area in cui nel corso degli anni è stato riversato di tutto. Da qui l’amianto, le bonifiche, altri tempi biblici fino alla svolta del ritorno al via, cioè al Comune. Che tutto sommato può determinare uno sbocco possibile che prima non si intravedeva. Saggia anche l’idea di Mario Landriscina che, una volta uscito dal tunnel burocratico per il passaggio dell’area e istituito il parcheggio di cui c’è bisogno quasi come l’aria, vuole coinvolgere la città nella scelta sul che fare.

Perché, in fondo, la Ticosa rappresenta nel bene e nel male, la storia di Como e delle sue tante occasioni mancate. È stata il simbolo dell’industria tessile nel suo periodo più fiorente, poi del declino. Ha rappresentato la capacità di programmazione lungimirante del ceto politico cittadino attraverso l’acquisto pubblico per mantenerla al servizio della città e magari recuperare un po’ dei livelli occupazionali perduti con la cessazione dell’attività industriale, ma anche l’incapacità di non riuscire a centrare, per decenni, l’obiettivo. Il famoso “canocchiale” San Rocco-San Rocchetto che definiva una parte importante di Como da riqualificare in funzione dello sviluppo cittadino è rimasto finora orbato.

L’idea di una chiamata alle armi generale da parte di Landriscina per battere un nemico che finora si è rivelato più tosto del maresciallo Radetzky potrebbe servire anche a superare tutte le divisioni che spuntano in questa città quando qualcuno si mette in testa l’idea di risolvere un problema. Un difetto che ai comaschi è costato caro in tante occasioni. La novità questa volta è l’atteggiamento di una buona parte dell’opposizione che non si è chiusa a riccio, anzi, ha dato la propria disponibilità a dare una mano. C’è un precedente in questo senso che fa ben sperare perché portò alla realizzazione di opere importanti che tuttora qualificano la nostra città. L’occasione insomma potrebbe essere propizia mettendo mano a tutti i ferri a disposizione vista la ricca serie di precedenti infausti Como per una volta dimostri di essere migliore di come viene dipinta. E lo è. E sulla quella targa da murare per indicare una via e una piazza, anziché un solo nome potrebbero esservene tanti: quelli di tutti i comaschi che hanno fatto l’impresa: la conquista della Ticosa.

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