La Svizzera che chiude
Anzi ci cerca

Non ci sarà bisogno di un novello Kennedy che scuota le coscienze riproponendo - a Ponte Chiasso e in chiave insubrica - lo storico “Ich bin ein Berliner”. Como e Chiasso non diventeranno mai la Berlino Ovest ed Est di una guerra fredda giocata sulle spalle dei frontalieri.

Il tempo, come sempre, porta consiglio. E così, trascorsi tre giorni dal risultato - indubbiamente clamoroso - del referendum svizzero sulla libera circolazione delle persone, le reazioni di pancia possono lasciar spazio a scenari più ragionati. E la ragione dice che di steccati, al valico, non ve ne saranno. Dalla Svizzera, fin da domenica, politici, amministratori e industriali continuano a ripetere: ci sono tre anni di tempo per adeguarsi al volere degli elettori e cambiare le norme. E, anche in questo caso, il tempo giocherà a favore del buon senso.

Dopotutto - al di là dei campanilismi, che lasciano sempre il tempo che trovano - non conviene davvero a nessuno una Svizzera chiusa in se stessa. Non conviene ai comaschi, ma - forse - conviene ancora meno ai nostri vicini di casa.

Dati freschi da Milano Unica: tra i mercati esteri del nostro Paese si scopre che le esportazioni nel tessile e nel legno arredo salgono, e anche sensibilmente, verso la Svizzera. Segno, questo, che il Made in Italy continua ad attrarre, a dispetto della crisi.

Non solo: l’anno prossimo a meno di 50 chilometri da Chiasso prenderà il via l’Expo 2015. Un appuntamento che nessun imprenditore e nessun governo con un minimo di strategia e intelligenza pensa di poter perdere.

In realtà bisognerebbe scindere la questione referendum in due. Da un lato analizzare il voto di pancia che ha alimentato la vittoria dei “sì”. È innegabile che il successo ottenuto dai promotori del ritorno delle quote sulla libera circolazione dei lavoratori sia figlio della crisi e della paura. E anche di una logica un po’ medioevale che predilige l’arrocco all’apertura, logica che funziona fino a quando non si scopre che tutto sommato degli altri sia potrebbe sempre avere bisogno.

Dall’altro lato l’analisi dovrebbe concentrarsi sugli effetti pro e contro di una chiusura che non gioverebbe a nessuno.

Perché è vero che la Svizzera è, per il mercato del lavoro comasco, un salvagente in questo periodo di crisi occupazionale ed è un salvagente anche per l’esportazione. Ma è altresì vero che senza il resto dell’Europa la Confederazione finirebbe per atrofizzarsi e avvizzire.

Non vi sono dubbi sul fatto che, fra tre anni, il buon senso avrà prevalso sulla pancia. E, se non sarà stato per il buon senso, quel muro che non sarà mai eretto lo si dovrà ai calcoli che economisti, politici, imprenditori e cittadini faranno. Come si può pensare, infatti, che Como e Chiasso possano tornare a essere entità separate? Anche se non sono state capaci di realizzare una stazione unica, la nostra provincia e il Canton Ticino resteranno indissolubilmente legate. Perché senza l’Italia tutti quei distributori di benzina, il Fox Town, il California, il Serfontana, le fiduciarie, gli sportelli bancari non avrebbero motivo di esistere e non sarebbero mai esistiti.

Anche a Berlino Ovest, il 9 novembre 1989, a molti fece paura il crollo del muro. Per scoprire, poi, che si stava tutti peggio quando si era divisi. No, il referendum non sigillerà la frontiera tra Como e Chiasso. Perché al netto della propaganda gli svizzeri hanno bisogno di noi. Come noi di loro.

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