Libeskind e l’ombra
dei no a priori

Dicono che Daniel Libeskind sia un pirla. Un furbacchione. Un fanfarone. Dicono anche che sia un americano un po’ cialtrone con quegli occhiali stilosi e gli stivali da cowboy. Dicono infine che sarà pure un genio, un fenomeno, un’archistar che l’universo mondo applaude, ma che in fondo, diciamoci la verità, è venuto qui a prenderci per il naso, a rifilarci un fondo di magazzino e a portare via il lavoro a noi.

Ora, chi scrive questo pezzo – trattandosi di un ragazzotto venuto giù dal Resegone - non ha alcuna competenza né generica né specifica per permettersi un giudizio di merito sul monumento a Volta che verrà posizionato sul lungolago di Como per l’inaugurazione dell’Expo. E quindi se ne sta ben zitto, limitandosi a leggere i pro e i contro, gli appelli al blocco immediato del progetto o perlomeno al suo spostamento in una sede più periferica, così come la difesa di un’opera invece considerata parto di una mente geniale e volano indispensabile per dare una smossa a questa terra addormentata. Un colpo di teatro per accogliere quel milione di turisti che arriveranno sul lago durante l’anno dell’esposizione. E come si è già visto in questi giorni, il nostro giornale ospiterà tutti gli interventi a favore e contro. C’è grande fermento su questa notizia, grande dibattito: è importante seguirlo con attenzione per fornire ai lettori tutti gli elementi che li aiutino a formarsi un giudizio completo e approfondito.

Ma ora che il sermoncino del bravo direttore a cui importa l’equilibrio e l’equidistanza dell’informazione è stato scritto, così ci mettiamo tutti quanti il cuore in pace, rimane inevasa una questione. La più importante. C’è qualcosa che non funziona nel fronte del no. Qualcosa che non si può dimostrare, ma che si percepisce a pelle e che, nel mondo del calcio, prenderebbe il nome di fallo intimidatorio. Di solito funziona così. Quando entra in campo la star della partita, una delle strategie consone ai più deboli - o semplicemente ai meno famosi - è quella di fargli subito un’entrataccia da dietro, possibilmente a gioco fermo, quando la partita è iniziata da pochi secondi, per fargli capire subito qual è l’aria che tira e che non pensasse di giocare al fenomeno con i suoi sombreri, le sue rulete e i suoi scavetti, perché qui non siamo mica disposti a fare la figura dei cioccolatai. E chiunque abbia un passato agonistico come chi scrive – celebre ai tempi delle giovanili del Lecco per i suoi dribbling veneziani e il suo sinistro dolcissimo – ha capito di cosa stiamo parlando.

Leggendo senza pregiudizi le posizioni di alcuni dei nemici dell’opera di Libeskind – e, ripetiamolo, senza entrare nel merito – si coglie chiaramente dell’astio a priori, della perfidia a prescindere, della maldicenza da cortile un po’ da romanzo di Chiara o di Vitali e, soprattutto, un’aria stantia da casa dei nonni, da cappotto sotto naftalina, da comari segaligne al mercato di Aci Trezza. È una sensazione epidermica forse sbagliata - ma probabilmente no - che nasce da una contrarietà ovunque, comunque e dovunque, nella quale la componente del giudizio sembra offuscata da un umor nero bilioso, da un veleno di ipecacuana, che spingerebbe a dire “no” a qualsiasi artista e a qualsiasi opera. Noi, vestali e sacerdoti della comaschità assoluta e incorrotta, sempre e per sempre padroni in casa nostra.

Non è neppure il caso di perdere tempo con qualche politicante di serie C che si permette di dare lezioni di architettura e urbanistica quando, visti i trascorsi circensi del suo curriculum, sarebbe meglio se ne stesse infilato in soffitta fino alla conclusione dei lavori del ponte sullo stretto. O sulla pletora di molesti da bar che, al terzo giro di bianchi sporchi, si scoprono tutti quanti esegeti di Brunelleschi, Gaudì e Le Corbusier e passano le ore a trombonare su capitelli, stilobati, piattabande e trabeazioni, che a un certo punto viene voglia di spedirli a pedate in fonderia. Anche perché è proprio da questi ambientini che è sgorgata la più perniciosa delle contestazioni: l’opera va rifiutata perché non ha passato il vaglio della comunità e i cittadini non sono stati coinvolti nella scelta del monumento e della sua collocazione. Ma dove siamo arrivati? All’assemblearismo urbanistico? Al Sessantottismo architettonico? Al consociativismo ingegneristico? Che si fa? Un referendum su Libeskind? Un sondaggio grillino in rete perché anche su architravi, cupole e volte a crociera uno vale uno? La politica vera, supportata da un pensiero forte, studia, analizza e sceglie. È lì per quello. E se sbaglia se ne va a casa, ma evitandoci, per cortesia, la demagogia infantile e un po’ grottesca del popolo sovrano che decide l’urbanistica e l’arredo di una città. Ridicolo.

Il problema – il problema vero – è quando vedi persone intelligenti e preparate farsi avvelenare dal male sottile del provincialismo, che ti fa rifiutare il nuovo e avvinghiare al passato. Il passato è memoria e radici, certo, ma è anche status quo, ingessatura, paralisi e basta poco per trasformarsi da intellettuale coraggioso a barbogio giallognolo che guardando i lavori in piazza commenta che non è così che si scava e dove andremo a finire e questi giovani del giorno d’oggi che bevono, fumano e non votano più la Dc. E di sicuro non è una specialità lariana. Perché si può star certi che, ai tempi dei tempi, non saranno mancati quelli che, insomma, è intollerabile rovinare lo skyline della Roma dei Flavi con questo accidenti di Colosseo e quelli che stasera gliene dico quattro al faraone su quel mostro della Piramide di Cheope e quelli che non siamo mica qui a smacchiare il giaguaro con ‘sto ammasso di lamiere della Torre Eiffel. Paese che vai, trombone che trovi. L’appartenenza uccide la curiosità. E senza curiosità un uomo è morto. Permettiamo a Libeskind di costruire - e senza usare un euro pubblico, tra l’altro - la sua eventuale schifezza. Quando sarà finita, allora sì che avremo diritto di farla a pezzi.

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