Lucini e il rischio
pesce in barile

C’è un filo rosso (o di un altro colore, scegliete voi) che sembra accomunare le esperienze di tutti i sindaci eletti finora con la nuova legge, cioè direttamente dai cittadini. Sia il compianto Alberto Botta, sia il suo successore Stefano Bruni, hanno terminato la loro epopea a palazzo Cernezzi in conflitto con buona parte della loro maggioranza in Consiglio comunale. La conseguenza, come si sa, è stata la paralisi quasi totale di ogni attività dell’istituzione, esclusa l’ordinaria amministrazione.

Ci si interroga se la medesima sorte debba toccare anche a Mario Lucini, attuale primo cittadino in carica. E le ragioni che stanno dietro questo interrogativo neanche troppo malizioso si accumulano. L’ultima è stata il voto di astensione sulla mozione contro il monumento di Libeskind (sostenuto dal sindaco) da parte di sei esponenti della coalizione del governo cittadino. Il fatto che il segnale politico sia arrivato a poche ore dal vertice del centrosinistra dove erano stati serviti, stando al le note ufficiali, abbondanti porzioni di tarallucci innaffiati con un buon vinello, potrebbe essere non del tutto causale. I soliti bene informati dicono che con il bilancio in arrivo, altri “segnali” siano in serbo..

Ma il rischio che a Lucini possa toccare ciò che è già capitato ai suoi predecessori (con la differenza che lui è al primo e non al secondo mandato) induce a riflettere anche su altri aspetti. Perché, al di là delle contingenze, una parte delle cause di questi corti circuiti nella recente storia amministrativa comasca, può risiedere anche nel quadro normativo. In quelle leggi cioè, che, negli anni ’90 con la spinta del vento di Tangentopoli, hanno sempre più svuotato il Consiglio comunale di poteri per trasferirli a Giunte e uffici. Il fatto che, nelle precedenti amministrazioni di palazzo Cernezzi, una cospicua parte (e non la più edificante) dell’iter del cantiere delle paratie sia passata sopra la testa dei consiglieri la dice lunga. Alla fine, tutto quello che può fare un rappresentante dei cittadini è al massimo un lavoro da guastatore sia che sieda all’opposizione sia che faccia parte della maggioranza e magari ambisca a qualche strapuntino così da compensare le tante serate trascorse a discutere su sterili e verbose mozioni. Dall’altra parte, sindaci e giunte, sempre sulla scorta delle leggi e ciascuno secondo il suo carattere e le sue attitudini, maturano una inevitabile predisposizione al decisionismo senza stare troppo ad ascoltare questo e quello, il che finisce solo per esasperare il conflitto che di solito non ha né vinti né vincitori poiché sfilare la sedia al primo cittadino significa toglierla anche ai consiglieri. Certo le norme come le idee camminano sulle gambe delle persone. E ciascuno può interpretare a suo modo il ruolo che gli compete. C’è chi, poi, la vocazione del guastatore se la porta comunque dentro. Perciò, la storia rischia di ripetersi. E alla città, specie in questo momento con tante questioni aperte che possono chiudersi bene ma anche no, sarebbe devastante ritrovarsi con un sindaco più pesce in barile che non anatra zoppa come usano dire i politologi, per i prossimi due anni che mancano alla fine del mandato. Per scongiurare questo scenario poco meno che apocalittico e premesso che forse sarebbe anche il momento di fare il tagliando alle norme sugli enti locali, sarebbe utile anche la politica. Magari un partito di maggioranza compatto e con le idee chiare e condivise che prenda in mano la situazione (nei due precedenti richiamati era accaduto a fasi alterne). Ma se questo partito è il Pd la questione si fa spessa.

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