Lungolago, gli alibi
non servono più a nessuno

Sul cantiere eterno, maledetto e atrofizzato del lungolago si è fatta poca causa comune. In compenso il Comune ha deciso di fare causa a tutti. Prima i progettisti, ora anche la società milanese che garantì la bontà (verrebbe da dire una squisitezza dopo quanto accaduto) del progetto soprattutto in funzione del rischio di quelle varianti in corso d’opera da decenni utilizzate per far salire i costi quando si tratta di opere pubbliche. Che infatti si sono addirittura impennati: da 12 a oltre 31 milioni. E forse non è ancora finita. Il tutto per un cantiere che, di fatto, è fermo da quattro anni.

Sulla prontezza di riflessi della pubblica amministrazione in generale e di quella comunale di Como nello specifico, si potrebbe avere qualche perplessità. L’incarico alla società contro cui ora punta il dito la Giunta Lucini è stato affidato dal precedente sindaco, Stefano Bruni, due lustri fa. E nel frattempo di varianti ne sono state fatte tre.

Un bel po’ dopo la terza cucchiaiata, insomma, si è capito che era minestra. Un minestrone andato a male e indigesto soprattutto per i comaschi. Che si sono visti sottrarre il loro lago per anni e, se non fosse stato per l’iniziativa dei privati (Amici di Como e Consorzio Como Turistica) sarebbe stato impossibile percorrere almeno un tratto di quella passeggiata che offre a indigeni e turisti un panorama con pochi uguali.

Sul versante pubblico, per ora, la pratica paratie presenta un bilancio disastroso. Purtroppo in triste continuità tra le due amministrazioni, quella di centrodestra che ha avviato lo sciagurato cantiere cominciando ad accumulare errori non tutti colposi e il centrosinistra che proprio grazie a questa situazione ha potuto portare a casa tutto il piatto nelle elezioni del 2012 e piantare il proprio vessillo sul pennone di palazzo Cernezzi.

Purtroppo (per Como, per i suoi cittadini, per i tanti gitanti e turisti che ogni giorno arrivano davanti a uno dei laghi più belli e ora anche famosi nel mondo) il cambio della guardia ha portato ad altri problemi. Di sicuro tutti si sono mossi con le migliori intenzioni, ma i risultati sono lì da vedere: nefasti. Perché a oggi, anno 2015, sette anni dopo il primo colpo di piccone sulla lacustre battigia, ancora non vi è certezza su quando e anche sul come finiranno i lavori.

Tutti possono accampare alibi di vario genere. Perché si sa che quando un’opera come questa, sinistramente ribattezzata “il Mose” di Como si ingarbuglia, sbrogliare la matassa diventa un’impresa.

Ma questo era l’impegno assunto da Mario Lucini quando era solo il candidato sindaco del centrosinistra: una volta salito lo scalone d’onore di palazzo Cernezzi e insediatosi nell’ufficio del sindaco ci avrebbe pensato lui. Era del tutto consapevole che l’eredità avvelenata lasciata dal suo predecessore avrebbe stroncato un toro. Poi sono accaduti altri imprevisti, in onestà non del tutto dipendenti dalla volontà del primo cittadino. Ma farlo capire agli elettori nel 2017 quando si tornerà alle urne senza aver ultimato le opere, sarà un’impresa ardua. Giusto intentare le cause, anche magari per riportare a casa un po’ del denaro pubblico (cioè nostro) dilapidato. Ma non deve essere un alibi. E, comunque, un messaggio del genere non passerebbe.

In realtà il cantiere che contende alla Ticosa la medaglia d’oro dell’opera pubblica più deprecata della storia di Como, ha sulla testa uno spadone di Damocle: quello dell’indagine aperta dall’Autorità Anticorruzione di Raffaele Cantone. Tra poco si saprà se il filo di speranza che impedisce alla spada di piombare sulla testa di Como, portando altri pesanti problemi, si spezzerà o no. Facciamo gli scongiuri. Ma per la politica comasca tutta, sarà comunque una debacle.

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