Senato:la zia
di tutte le riforme

Quando, nel 1919, Max Weber tenne la famosa conferenza a Monaco di Baviera sulla politica come professione, forse aveva in mente l’attuale centrosinistra italiano. Non fosse che nel nostro Parlamento, solo Razzi, Scilipoti e pochi altri conoscono a fondo il pensiero dello scienziato della politica tedesco, si potrebbe pensare che chi si è opposto alla riforma del Senato fortemente voluta da Matteo Renzi fosse animato dell’etica della convinzione (o dei principi, le traduzioni divergono) che, secondo Weber, è

quella di chi opera seguendo princìpi ritenuti giusti in sé indipendentemente dalle possibili conseguenze. L’etica della responsabilità, invece, è propria di coloro che guardano alle presumibili conseguenze delle scelte e dei comportamenti messi in atto.

Al netto della larga fetta di opportunismo e dei calcoli legati a alle poltrone da conservare, quel Vietnam che è diventato il Pd nella battaglia per la riforma del Senato, vinta dal premier a colpi di tagliole e canguri, che per fortuna non ha lasciato vittime sul campo ma solo feriti (la senatrice Bianconi dell’Ncd e il senatore Consiglio della Lega) e che costringerà il leader del Carroccio, Matteo Salvini a commissionare per i suoi uno stock di felpe con la corretta dicitura di “qual è” senza apostrofo, potrebbe essere interpretato con le categorie weberiane. Lo stesso filosofo lancia un’ancora di salvezza al partitone biancorossoverde (ma di che colore è il Pd?) quando sostiene che le due etiche non sono antitetiche ma si completano a vicenda per formare la vocazione politica.

Insomma Boschi e Mineo dovrebbero andare a braccetto.

Alla fine però tocca chiedersi, come usa in politica, a chi giova questa riformetta che non abolisce il Senato ma lo prosciuga nei numeri e nelle competenze, togliendo ai cittadini il diritto (una volta era anche un dovere, ma in Italia questi ultimi non hanno grande fortuna) di eleggerlo. Di per sé il Senato, se si guarda indietro, non sarebbe un’istituzione da rimpiangere, quella con cui i Savoia controllavano la politica dopo essere stati costretti a concedere lo Statuto Albertino o l’assemblea dei vegliardi su cui confidava Mussolini per la svolta autoritaria dopo il delitto Matteotti, oppure per venire a tempi più recenti il luogo in cui, secondo la Procura di Napoli, sì è perpetrata la compravendita di senatori per far cadere il governo di un ignaro Romano Prodi, sempre nei pensieri dei suoi successori, almeno stando ai rumors sul patto del Nazareno che contemplerebbe la clausola ad excludendum per il Professore al Quirinale.

Le cose stanno diversamente, è ovvio. Però anche arroccarsi, 70 anni dopo, a pezzi di Costituzione messi lì a causa di un ventennio autoritario appena lasciato alle spalle, appare anche un po’ anacronistico. Quel che è certo, è che la riformetta del Senato, non è la madre di tutte le riforme, caso mai una vecchia zia e giova poco ai cittadini la cui esistenza non migliorerà con palazzo Madama dimagrito e regionalizzato (e magari con quell’immunità tanto confortevole in ambito bipartisan). De Gasperi, all’epoca della virulenta battaglia politica sul piano Marshall, inviso al Pci che lo vedeva come i trenta denari per svendere il paese all’America, spiegava che con i discorsi di Togliatti non si condisce la pastasciutta. E neppure con la riforma del Senato. Che peraltro potrebbe far bene al premier e anche al paese poiché dimostra che, sia pure a colpi di psicodrammi, anche la politica italiana è capace di riformarsi. Certo, è un ombrellino da passeggio con cui affrontare la tempesta che si annuncia in autunno, non meteorologica ma economica, con le previsioni sul Pil ancora più sballate di quelle relative al meteo.

Per Renzi, formidabile arma di distrazione di massa grazie al suo eloquio torrenziale e a un presenzialismo quasi da dono dell’ubiquità, sarà il crinale. L’economia è un volano: ha bisogno di una spinta per mettersi in moto, poi riesce a sfruttare anche l’inerzia. L’unico innesco è la riforma del lavoro.

Nell’eterna lotta per la salvezza in zona euro con la Spagna, siamo rimasti indietro non tanto perché loro hanno portato a casa Suarez e Rodriguez mentre noi siamo costretti a spellarci le mani per Vidic o Evra. A Madrid, infatti, stanno recuperando punti preziosi: la riforma del lavoro l’hanno fatta e funziona. Su questo il premier che ha puntato tutto sulla crescita quando ha deciso di scalzare Letta e sta perdendo la scommessa (per la prima volta ha dovuto ripiegare sull’allargamento della platea beneficiaria degli 80 euro) e che comincia a mostrare qualche segno di logorio, si gioca tutto. Ma se la riforma del Senato è stato un Vietnam con un finale diverso, quella sulla legge Poletti sarà un’offensiva del Têt con mezzo Pd, i sindacati e altre schegge impazzite pronti alla guerriglia estrema. Ecco perché, lo ha ribadito anche ieri, Matteo è costretto a rimanere aggrappato a Berlusconi e al patto del Nazareno.

Del resto, lo diceva anche Weber nel famoso discorso: il raggiungimento di fini buoni è accompagnato, il più delle volte, da mezzi sospetti. Altrimenti saranno elezioni anticipate. Con il rischio che il 40% rimanga un Gronchi Rosa.

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