Democrazia: in fondo
si può fare anche senza

E quelli che ogni due per tre strepitavano che il governo non è espressione della volontà degli elettori? Ve lo ricordate? Adesso per trovarli bisognerebbe rivolgersi a Federica Sciarelli con “Chi l’ha visto?”. L’esecutivo di Mario Draghi, almeno per quanto riguarda la maggioranza è un minestrone con dentro tutti meno uno, anzi una.

Con tanti saluti a chi, nell’ormai remoto 2018, aveva deposto la scheda nell’urna senza mai immaginare cosa sarebbe accaduto.

Facciamo un bigino: prima c’è stato il governo uno guidato da Giuseppe Conte, neppure mai eletto in Parlamento, con in maggioranza due partiti che fino al giorno prima si erano scambiati insulti per nulla affettuosi: la Lega e i Cinque Stelle. Poi il secondo esecutivo dell’avvocato del popolo che aveva cambiato coalizione come fosse una delle sue pochette: dentro il Pd, un altro che con i post grillini andava d’accordo come la marmellata sugli spaghetti, Italia Viva di Renzi (uno che aveva fatto baruffa con tutti) e la sinistra di Leu. Quindi Draghi che sappiamo. Dice un tale: ok ma prima...

Altro capitolo: 2013. Dopo il voto, il povero Pierluigi Bersani, valente leader di allora del Pd fa la fine del Piffero di montagna. L’unica è un altro governo di unità nazionale (chissà che formula avrebbe varato Aldo Moro per giustificare la presenza di Pd e Forza Italia assieme). Seguono, nella stessa legislatura, gli esecutivi di Matteo Renzi, un altro che alle Camere ci aveva messo piede solo come visitatore e Paolo Gentiloni con maggioranze fritto misto. Vabbeh, ma prima ancora? Ok, anno 2011. L’Italia è sull’orlo del baratro Giorgio Napolitano chiama Mario Monti che diventa parlamentare solo perché il capo dello Stato lo nomina senatore a vita un paio di giorni prima di consegnargli le chiavi di palazzo Chigi, dove l’ex rettore della Bocconi entra scortato da una coalizione tanta vasta quanto disperata e disomogenea.

Insomma, bisogna fare un salto di un paio di lustri per vedere un governo guidato da qualcuno scelto dalla maggioranza di coloro che si erano recati ai seggi: l’ultimo di Silvio Berlusconi. Poi ci stupiamo se sono sempre meno gli italiani che votano. Tanto le schede sono diventate carta straccia. Vero che se domani ci fossero le elezioni per il Parlamento e Mario Draghi si candidasse, con ogni probabilità vincerebbe a mani basse. Ma questo è un altro discorso. Perché alla fine, dopo aver detto peste e corna dei burocrati ministeriali che fanno le leggi complesse in modo che il popolo non le capisca, ce ne siamo scelto uno (ex direttore del Tesoro) per gestire pandemia e Pnnr, mica l’ordinaria amministrazione.

E allora, tutto d’un tratto, si finisce per accorgersi che la democrazia, protagonista di miliardi di discorsi politici e non è stata collocata a riposo come un vecchio colonnello di cavalleria. Una cosa d’altri tempi, di cui neppure si sente la mancanza. Tant’è che il problema non lo solleva nessuno, tanto meno la stampa, in larghissima parte coperta e allineata al nuovo corso. Ricordate quando il Cavaliere voleva governare l’Italia come se fosse un’azienda, possibilmente sua? Ecco a coronare questo sogno è stato Mario Draghi. Perché questo governo somiglia tanto a un consiglio di amministrazione, dove il capo decide assieme a una stretta cerchia di fidati collaboratori (alcuni ministri), e ogni tanto concede qualche briciola agli azionisti di maggioranza: i partiti. Poi le cose funzionano, però non dovrebbe proprio andare a così.

Del resto, magari proprio il ceto politico potrebbe cercare al proprio interno le cause che hanno depotenziato la democrazia. Negli ultimi trent’anni lo scadimento di qualità di chi ci deve rappresentare è stato progressivo. Il leaderismo semplificato ha preso il posto della ricca complessità data dalla partecipazione. L’interpretazione distorta di un populismo d’attacco, peraltro venuto avanti tra un coro di osanna, è stata la spallata decisiva. Si potrà tornare indietro o il processo è irreversibile? Perché nel secondo caso sarà sempre più dura trovare persone valide disposte a impegnarsi in politica e riuscire a rimettere in moto tutte le istituzioni. Il primo articolo della nostra Costituzione recita che l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. Quest’ultimo sta trascolorando da diritto a privilegio. Se si giochiamo anche la democrazia vedete voi. La Carta rischia di diventare straccia.

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