La Grande riforma: il danno e la beffa

C’è stato un tempo in Italia, in cui si immaginava che padre e figlio potessero diventare, in momenti diversi, presidenti della Repubblica. Il genitore che con questa storia non c’entra, ma va citato per completezza di informazione, è stato Antonio Segni che non era riuscito a terminare il settennato a causa di un grave malore che lo aveva colpito durante una veemente discussione con l’esponente socialdemocratico Giuseppe Saragat e il presidente del Consiglio dei ministri di allora Aldo Moro. Altrettanto sfortunato l’erede, Mario detto Mariotto, artefice dei referendum elettorali che hanno abbattuto, assieme all’inchiesta Manipulite, la partitocrazia e posto fine, in termini convenzionali, alla Prima Repubblica. In particolare a Mariotto è ascrivibile il quesito sulla preferenza unica da esprimere per il voto alla Camera. Prima se ne potevano indicare tre e non erano pochi gli elettori che entravano nei seggi con in tasca il foglietto dei numeri dei candidati prescelti, indicati dai ras locali dei partiti.

All’epoca, giusto trent’anni fa, nel 1993, e grazie al successo di questa consultazione, per Segni jr sembravano essersi spalancate tutte le porte, compresa quella del Quirinale. E invece, di lì a poco, la febbre referendaria sarebbe cessata e il suo artefice collocato nel dimenticatoio. Qualcuno diceva che l’ex esponente democristiano aveva perso il biglietto vincente della lotteria. Ma è andata proprio così? Non è che il tagliando sia stato sottratto a Mariotto da quel sistema dei partiti che, sia pure in maniera diversa, dal 1994 in avanti, quando Manipulite aveva cominciato la frenata, era tornato a fare il bello e il cattivo tempo. Perché di quella stagione è rimasto solo il sistema per l’elezione diretta dei sindaci e dei consigli comunali, non a caso approvato quando l’influenza delle forze politiche era al minimo storico. Questa regola elettorale, esaltata da tutti anche se, garantisce la governabilità e meno alla stabilità, non è mai stata estesa ad altre istituzioni. E ci sarà un perché. La madre di tutte le riforme voluta da Giorgia Meloni, prevede sì la scelta del presidente del Consiglio affidata ai cittadini (ma a turno unico, mentre per i primi cittadini vale la doppia tornata), ma lascia inalterate le regole di un Parlamento che, di fatto, è modellato sulla base dei desiderata dei segretari di partito con donne e uomini a loro fedeli.

Ma come le forze politiche hanno sottrarlo il biglietto dalla tasca dello sventurato Segni jr? Se si va a vedere la legge elettorale per la Camera costruita dopo l’avvento della preferenza unica del maggioritario (prima per Montecitorio si era sempre utilizzato il proporzionale), si trovano già, per quanto attiene alla quota proporzionale, i listini bloccati che premiano coloro che i leader di partito mettono ai primi posti senza dare chance agli altri. Qualcosa che assomiglia parecchio alla norma adesso in vigore. E dire che quella dell’epoca era stata scritta dall’attuale presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, da cui aveva preso il nome, Mattarellum appunto. Da lì e dopo la sconfitta per un pelo del referendum che puntava a introdurre il maggioritario puro, è stata tutta una teoria di leggi che tendevano a tentare (spesso senza riuscirci) di favorire la maggioranza in carica e a limitare sempre di più i cittadini nelle scelte dei propri rappresentanti, quasi sempre calati dall’alto. Non a caso, alcune forze politiche hanno poi introdotto le primarie che però non sono mai entrate nelle leggi elettorali e rimangono perciò iniziative di parte.

Questo per rilevare come, al di là delle storture più volte evidenziate della riforma sul premierato in discussione, l’idea di far scegliere il presidente del Consiglio agli elettori e il Parlamento ai leader di partito, appare ancora di più stridente: un danno e una beffa, volendo. Ma fin quando si metterà mano a queste leggi guardando solo agli interessi contingenti, le cose non cambieranno. Per fortuna, almeno per quanto riguarda le riforme istituzionali, ai cittadini restano i referendum confermativi, dove non serve neppure il quorum. Purtroppo questo strumento non è applicabili alle leggi elettorali.

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