
Uno dei luoghi comuni più usurati che torna a ogni inaugurazione del Salone del libro è che i libri sono importanti. Sono importanti a prescindere. E che vanno letti. Letti a prescindere. Perché il libro, ogni libro, è bene in sé. E che, come da improvvida dichiarazione della direttrice della kermesse torinese Annalena Benini, “finché ci sono i libri c’è speranza”.
E’ un atto di fede che fa un po’ tenerezza, ma che soprattutto è falso. Non è affatto vero che i libri facciano bene di per sé e che l’importante non sia cosa si legga, ma che si legga, si legga, si legga! Basti pensare al povero Don Chisciotte - figura eminentemente comica e, quindi, eminentemente tragica - che a forza di divorare romanzi cavallereschi roboanti e rococò pieni di condottieri, maghi, giganti da sconfiggere e donzelle da salvare aveva perso il ben dell’intelletto, dando il via alla più straordinaria epica picaresca della storia della letteratura. Oppure alla povera Emma Bovary, che aveva a sua volta inzuppato la testolina vuota in una tale messe di romanzetti sentimentali sdolcinati strappalacrime su amore e seduzione da proiettarci dentro tutta la sua misera vita da donnetta da quattro soldi e costituendo così l’ossatura di quello che è forse il romanzo più bello dell’Ottocento, forse il romanzo più bello di sempre.
I danni che fanno i libri, signora mia, quando vengono ingurgitati da persone senza cervello e senza sensibilità e quando sono di livello così scadente da esaltare il peggio di quello che siamo. Meglio non leggere, a questo punto. Oppure leggere sapendo quello che si legge, così come facciamo nel valutare la differenza tra un trancio di pizza scongelato e un piatto di astice alla catalana di un ristorante stellato. Non è così, forse?
La riflessione è tornata di attualità dopo una serie di interviste che i giornali hanno dedicato nei giorni del Salone a Felicia Kingsley, pseudonimo dell’italiana Serena Artioli, vero e proprio caso editoriale, bestsellerista a prova di bomba, perennemente ai primi posti delle classifiche di vendita, regina del genere “romance”, la narrativa sentimentale che va di moda di questi tempi e affascina soprattutto le adolescenti. La tesi della Kingsley è dire basta ai pregiudizi sul “romance”, innanzitutto perché costituisce la porta di ingresso dei nuovi lettori e poi perché certifica la sconfitta di tutti gli snob che, appunto, ignorano autrici come lei che dominano il mercato, ma vengono irrise dai critici e dai lettori tradizionali. Insomma, perché tutto questo razzismo nei confronti dei romanzi d’amore?
Ma anche qui la questione è mal posta. La narrativa cosiddetta rosa o chiamatela come volete, d’evasione, da ombrellone, da stazione, da sciampiste (questa però è un po’ misogina), insomma, la narrativa spazzatura (come si diceva una volta, ma adesso non si può più) c’è sempre stata, c’è ora e sempre ci sarà. Esattamente come la musica spazzatura, il cinema spazzatura, l’arte spazzatura eccetera eccetera. E non c’è niente di male. La storia dell’editoria strabocca dal Settecento a oggi di autori dal clamoroso successo di cui nessuno ricorda né il nome né le opere e di grandissimi come Proust, ad esempio, che facevano terribili scenate al proprio editore perché dedicava tante attenzioni alla nullità che vendeva copie a valanga e ben poche a lui, che era un fuoriclasse, ma non se lo filava nessuno.
Anche se, a pensarci bene, pure il teorema “grande scrittore quindi non vende, scrittore dozzinale quindi vende” è fallace. Il successo di un libro è un assoluto mistero, tanto è vero che ci sono giganti della letteratura come Balzac o Nabokov o Zweig che ai loro tempi hanno sbancato le librerie. E viceversa, naturalmente. Così come è del tutto legittimo che chiunque scelga di leggere libri di pura evasione giusto perché ha voglia di ingannare il tempo e buttare via tutto a fine giornata. E’ lecito, nessuno deve scandalizzarsi e nessuno deve fare la lezioncina a nessuno.
Quello che non si può fare, invece, è qualificare una cosa per quello che non è. E cioè - e qui il discorso diventa serio - spacciare per letteratura quello che non è letteratura. Ne mai lo sarà. Basta leggere una pagina, anzi, basta leggere l’incipit di un qualsiasi romanzo della Kingsley per capire in poche righe che non è letteratura. E’ marketing, è prodotto seriale che punta con grande perizia a un target predeterminato, è linguaggio basico da sceneggiatura, è vocabolario di cinquecento parole, ma non è letteratura. Niente di male. Va bene Pupo, ma non è Battiato, non è musica. Va bene Vanzina, ma non è Scorsese, non è cinema. Una volta fissato questo paletto, tutto il resto è legittimo ed evita di coprire di ridicolo chi afferma che la caratteristica saliente, diacritica del “romance” è raccontare storie d’amore. Comico. Anche Jane Austen racconta storie d’amore. Anche Colette racconta storie d’amore. Anche “Cime tempestose” è una pazzesca storia d’amore. Anche Tolstoj - Tolstoj! - sguazza nelle storie d’amore. Ma questa è letteratura di altissimo livello, quella resta la spazzatura di cui sopra.
Invece l’operazione truffaldina dei media è dire che quella sì che è letteratura, nuova fresca, popolare e antisnobistica e che il resto, invece, è sbobba per grigi e bolsi tromboni parrucconi, come da celebre uscita di Valérie Perrin – scrittrice di grande successo particolarmente scarsa – che al Salone del libro 2022 aveva confessato di non aver mai sopportato Proust e conseguente ovazione del pubblico tipo “La corazzata Potemkin” di Fantozzi. Poi uno legge l’incipit della “Recherche” (citato da Sergio Leone in una scena chiave di “C’era una volta in America”, ma guarda un po’...), lo confronta con le pagine di “Cambiare l’acqua ai fiori” e inizia a ridere. E ride e ride e ride. E non finisce più di ridere.
Ma questo, in effetti, è un discorso snob. Però, come diceva Gregor von Rezzori - scrittore molto poco “romance”, ma molto genio - gli snob sono snob, però gli snob hanno quasi sempre ragione.
@DiegoMinonzio
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