L’agente Omicron
e la Corea del Nord

A pensarci, ha proprio un nome da agente segreto: Omicron. Un nome in codice, perfetto per annullare l’identità, cancellare il passato, trasformare l’anonimato in un principio di sopravvivenza.

Non solo: Omicron è addirittura titolo ideale per un romanzo o un film. “Omicron, missione inverno”, “Omicron, dossier segretissimo”. Un personaggio d’avventura, insomma.

Un infiltrato dietro le linee nemiche, magari un cinico doppiogiochista. L’uomo che arriva dove nessun alto osa: anche in Corea del Nord, a Pyongyang, perfino nella camera da letto di Kim Jong-un. Nessun agente dell’intelligence occidentale è mai riuscito ad avvicinarsi tanto al leader supremo della Repubblica democratica di Corea, protetto da un apparato di sicurezza proporzionato alla sua paranoia. Omicron ce l’ha fatta. 007 arrenditi: è l’ora della pensione.

Omicron, lo sappiamo, non è un agente ma una variante del Covid. Per cui alla notizia che ha forzato l’isolamento della Corea del Nord ed ha incominciato ad accumulare contagi anche lassù – ormai siamo ufficialmente alle centinaia di migliaia – ci sarebbe poco da scherzare. I morti nordcoreani non sono meno morti di quelli italiani, americani, russi o cinesi. I malati, uguale: soffrono quanto i nostri. Semmai, sono in condizioni ancor più svantaggiose: vittime, oltre che del virus, anche dell’ostinazione isolazionista della dittatura che li opprime. Per la prima volta dall’inizio della pandemia, il leader supremo si è trovato costretto ad adottare il linguaggio degli altri capi di Stato, occidentali e no: ha parlato di “grave disastro”, di “enorme danno” e si è appellato all’unità di popolo e governo perché siano promossi tutti gli sforzi necessari a contenere l’epidemia nel più breve tempo possibile. Parole che potrebbe pronunciare un Macron qualunque, non un dittatore abituato ad applaudire, prima di mezzogiorno, il lancio di almeno un paio di missili balistici.

Omicron ha messo in crisi la versione estrema, nordcoeana, della politica “zero Covid” ispirata dalla Cina, ovvero il tentativo di bloccare la circolazione del virus più con i lockdown e i divieti di assembramento che con la vaccinazione di massa. Nonostante il parere contrario dell’Organizzazione mondiale della Sanità, la Cina insiste tuttora con questa politica: ne ha fatto le spese di recente una città enorme come Shanghai, costretta a un lockdown estenuante e dai risvolti non di rado drammatici. La Corea del Nord si è fatta sorprendere ancor più indifesa dalla contagiosissima variante. Respinte in passato le offerte di vaccini pervenute da Cina e Russia, porge oggi al virus il fianco di una intera popolazione priva di anticorpi. Kim paga la sua paranoica politica isolazionista: accogliere i vaccini lo avrebbe costretto ad ammettere un controllo “straniero” sulla loro distribuzione, una condizione per lui inaccettabile. L’unica incursione esterna che il leader coreano ha voluto concedersi nel recente passato lo ha visto sfruttare l’occasione di riconoscimento internazionale offertagli dall’allora presidente Usa Donald Trump per colloqui circa gli armamenti che hanno prodotto risultati più che modesti.

Per la Corea del Nord, per l’Asia e in fondo per tutti noi, la speranza è che ora Kim sia saggio abbastanza da accettare aiuti internazionali, in termini di farmaci e di vaccini. La devastante missione dell’agente Omicron è forse il colpo fatale assestato alla politica dell’isolamento, al governo del sospetto e alla logica delle barriere e dei confini. Ci sono ambiti – le pandemie e la crisi climatica per citare i più evidenti – in cui la retorica del recinto non solo appare stanca e vuota di significato, ma anche pericolosa e criminale.

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