Le parole? Sono
ancora importanti

In una sequenza memorabile di “Palombella rossa”, film noioso, irritante e narcisista, ma al contempo profetico e profondissimo, un deputato del Pci viene intervistato da una giornalista modaiola e petulante - una vera cretina, se si può ancora dire - che lo subissa di banalità quali “kitsch”, “cheap”, “matrimonio a pezzi”, “non sono alle prime armi”. Lui cerca di argomentare, ma l’altra va avanti a forza di frasi fatte fino a quando il suo livello di insofferenza diventa talmente insostenibile che le tira due ceffoni urlando come un pazzo: “Ma come parla? Come parla? Le parole sono importanti!”.

La scena è giustamente celebre e rappresenta il meglio del film di Nanni Moretti, che nella primavera del 1989 aveva preconizzato il crollo del comunismo italiano e del suo sistema di valori, ma soprattutto aveva messo le mani e i piedi nel vero male della stagione del cosiddetto riflusso. Finite le ideologie, conclusa la parabola tragica del terrorismo e delle appartenenze non era però sbocciata, rigogliosa come un topinambur, quella della libertà dell’individuo pensante e dell’esercizio critico della ragione, ma quella del conformismo, del consumismo, dell’ignoranza sistematica, del marketing sociale, un’epoca buia e cloroformizzante nella quale le parole erano destinate a perdere via via il loro significato per diventare slogan, bandierine, post, tweet.

Ora, passati trent’anni, la frittata è fatta. Basti pensare all’utilizzo scriteriato delle parole che è stato architettato da importanti leader politici negli ultimi giorni, così convulsi che avrebbero bisogno di cultura e intelligenza e non certo di furbate e comizietti. Dopo le proteste anti Green pass che sono degenerate in guerriglia urbana a Milano e a Roma, i nostri statisti hanno fatto a gara per dare il peggio di sé. Giorgia Meloni ha detto che quella messa in campo dalle forze dell’ordine – e quindi dallo Stato - durante l’attacco alla Cgil non è stata insipienza, ma strategia della tensione. Strategia della tensione. Ha detto proprio così, strategia della tensione, tesa a provocare gli scontri per addossarne le colpe al suo partito e metterlo così fuori gioco in una fase delicatissima per il paese. Ora, è sbalorditivo come una frase del genere possa essere stata utilizzata per questa occasione, perché significa che non si sa nulla di cosa sia stata la strategia della tensione negli anni Settanta e nel mondo dell’eversione nera, che si dicono cose a caso, che si saccheggia un vocabolario che non si frequenta. Usare quell’espressione senza conoscerla è da ignoranti, usarla lo stesso anche conoscendola è da demagoghi da strapazzo. Le parole sono pietre. Le parole sono importanti.

Per non essere da meno, Matteo Salvini, nei giorni caldi della protesta dei portuali di Trieste e di altri scali d’Italia contro il Green pass ha chiesto a Draghi di avviare un processo di pacificazione nel paese. Pacificazione. Ha detto proprio così, pacificazione, ed è altrettanto sbalorditivo che un termine del genere venga utilizzato senza sapere niente di cosa significhi e di cosa abbia significato nell’Italia del dopoguerra. Le pacificazioni si fanno dopo i conflitti, dopo le guerre civili, dopo le stagioni del terrorismo, cosa c’entra l’Italia del 2021 con la guerra, la guerra civile e il terrorismo? Cosa c’entra? Ma di cosa stiamo parlando? Urge la pacificazione perché una minoranza rumorosa non vuole vaccinarsi e farsi un lasciapassare? Ma perché la gente beve? Chi usa il termine pacificazione senza conoscerne la storia e il significato è un ignorante e se, pur conoscendolo, lo utilizza lo stesso allora è un demagogo da strapazzo. Le parole sono importanti.

E tutti gli statisti di sinistra, nessuno escluso, che da una settimana si riempiono la bocca di fascismo e allarme fascismo e il ritorno del fascismo e la natura eterna del fascismo e il popolo in armi contro il fascismo sono tali e quali ai loro colleghi di destra. E continuano a usare un termine che non ha più alcun senso fuori dal suo periodo storico, che è puro argomento di studio e di analisi e che non serve a nulla se si vuole comprendere la crisi profondissima di interi ceti fustigati dalla globalizzazione, la perdita di ruolo sociale e psicologico di fasce di piccola e piccolissima borghesia, la devastazione culturale portata dalla comunicazione digitale, la precarizzazione del lavoro, lo sfruttamento intollerabile dei nuovi schiavi e tutto il resto della mostruosa complessità di questo inizio di millennio.

Ma che c’entra questo con il fascismo? Ma perché non la smettono tutti quanti di coprirsi di ridicolo? I mali attuali possono diventare altrettanto pericolosi di quelli degli anni Trenta, ma è passato un secolo e ci vorrebbero occhi puliti e meno ignoranza per combattere i nuovi demoni. Altrimenti il richiamo al pericolo fascista si conferma quello che è sempre stato in questi settant’anni: un espediente furbastro per screditare chiunque non la pensi come i tromboni del perbenismo conformista. Le parole sono importanti anche e soprattutto per i demagoghi di sinistra, non solo per quelli di destra.

E poi, per finire in gloria, ve li ricordate gli insegnanti, i mitici insegnati progressisti - ma perché gli insegnanti sono tutti progressisti? - che quando è passata la riforma Renzi sulla mobilità delle cattedre hanno inscenato proteste virulentissime contro la deportazione dei docenti? Deportazione. Hanno detto proprio così. Deportazione. Dei laureati, degli intellettuali, degli educatori, che a proposito di un cambio di sede di lavoro hanno usato il termine deportazione. E se anche quelli che dovrebbero formare le nuove generazioni usano le parole in questo modo e nulla sanno di cosa significhi quel termine nella storia del Novecento oppure, pur sapendolo, lo usano lo stesso allora è meglio che chiudiamo bottega e ce ne andiamo tutti quanti in montagna. La difesa delle parole dai loro stupratori è l’unica resistenza che vale la pena di combattere.

DiegoMinonzio

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