L’elettore ha ragione e spesso anche torto

In un memorabile aforisma giustamente passato alla storia, Winston Churchill ricordava che il miglior argomento contro la democrazia è una conversazione di cinque minuti con l’elettore medio.

Visto che l’ex premier britannico è una figura leggermente gigantesca e, forse, leggermente più autorevole degli statisti che affollano il panorama politico internazionale, ma soprattutto nazionale, questa considerazione rigonfia di cinismo, pessimismo e lungimiranza ha qualcosa da dire anche a noi. Certo, il fatto che il tema - “non è vero che gli elettori hanno sempre ragione” - sia stato riproposto nei giorni seguenti alle elezioni regionali, per lui disastrose, dal leader del terzo polo Carlo Calenda, uno dalle idee molto nette, spesso condivisibili, ma con un’inquietante tendenza a farla fuori dal vaso, non ha aiutato a dare autorevolezza al livello del dibattito. Che infatti, tra risate, sberleffi, sghignazzate da osteria, calambour sulla sinistra Ztl e meme sui social non ha fatto altro che infierire sul malcapitato compagno di avventure di Renzi (povero lui…) e buttarla in caciara, specialità nella quale il Bagaglino in servizio permanente effettivo della politichetta italiana non prende lezioni da nessuno.

Ma al netto dell’avanspettacolo, il tema c’è. E, a scanso di equivoci, non consiste affatto nella delegittimazione del risultato elettorale, di qualsiasi risultato elettorale, che rimane scolpito nella pietra e guai a chi lo tocca - e ci mancherebbe altro -, ma invece nella necessità di una seria riflessione, che riguarda tutti i partiti e tutti gli schieramenti, sulla condizione comatosa del senso di responsabilità civica non tanto dei politici, che comunque ne sono il frutto, quanto invece dell’elettorato.

In una democrazia matura non può essere che gli elettori abbiano sempre ragione e contestualmente non facciano altro che lamentarsi della politica che hanno appena votato. È evidente che non ha senso.

Non ha senso che, a ondate rapide, travolgenti, ma altrettanto fragili, gli italiani si muovano a pochissima distanza di tempo a blocchi del 30% da Renzi e il renzismo, che è una cosa ben definita, a Grillo e il grillismo, che ne rappresenta l’esatto contrario, e poi a Salvini e il salvinismo, che è la prosecuzione del grillismo con altri mezzi e - per ora - alla Meloni e al melonismo, che a chiacchiere e distintivi si atteggia a rivoluzionarismo, ma che poi nelle scelte economiche e di politica estera è uguale al draghismo. E vediamo quanto dura, la Meloni, che però dà almeno un’impressione di serietà e di studio che in tanti altri soggetti manca del tutto mentre in alcuni l’incompetenza viene addirittura esibita come un valore.

È evidente che se è così - ed è così - si tratta di consensi basati sul nulla, su un istinto epidermico, su una schiuma modaiola che infatti prima li fa gonfiare come un otre e poi li fa implodere. E visto che alla fine dei conti siamo noi che prima votiamo Renzi e poi Grillo e poi Salvini e poi la Meloni e nell’intermezzo ci piace tanto Draghi, ma tanto tanto, e infatti poi lo mandano via e votiamo quelli che hanno fatto cadere quello che a noi piace tanto, forse non è così peregrina l’affermazione che l’elettorato non ha sempre ragione. Almeno per una questione di mera coerenza.

E non è che manchino i casi storici, sicuramente più drammatici, ma anche più seri dei nostri. Appena dopo la fine della guerra mondiale, vinta in larga parte grazie a quel titano di Churchill, appunto, gli elettori inglesi hanno pensato bene di spedirlo a casa: avevano ragione? Gli elettori italiani, invece, hanno mandato al governo tramite elezioni Mussolini: avevano ragione? E sentite questa. Gli elettori tedeschi hanno mandato al potere tramite elezioni Hitler: avevano ragione? E - perdonate il paradosso - gli “elettori” raccontati dai Vangeli tra Gesù e Barabba hanno “eletto” Barabba: avevano ragione?

Ora, è evidente che ci sono ragioni profondissime che spiegano gli episodi relativi a Churchill, Mussolini e Hitler - e potremmo citarne molti altri - e che nulla avviene per caso e tutto ha una storia e bla bla bla. Ma il tema proposto da Calenda ha senso. Quando andiamo a votare diamo il giusto peso alla serietà, al profilo e alla preparazione dei candidati? Riusciamo a liberaci dalla piovra avvolgente della demagogia, del qualunquismo - che è di destra, di sinistra e pure di centro - del populismo, del conformismo, del gentismo? Siamo consci di quanto la mostruosa complessità del mondo moderno, i vulnus pesantissimi prodotti dalla globalizzazione e dal multiculturalismo, la rabbia, il livore, il rancore che serpeggiano in tante classi sociali abbandonate a se stesse, il dilagante analfabetismo funzionale che fa sì che sempre più persone non capiscano quello che leggono, siano tutti fenomeni che producono una grande fragilità culturale dei cittadini e, quindi, degli elettori? E ripetiamolo per la centesima volta: è un dramma che riguarda tutti gli schieramenti politici, nessuno escluso.

Crediamo davvero di superare questa gigantesca difficoltà con le armi del marketing, della comunicazione social e dell’imbonimento di massa, se poi, quando irrompe la realtà effettuale con le sue tragedie – il Covid, la recessione, la guerra – siamo del tutto impreparati non solo a rispondere a questi fenomeni, ma pure a comprenderli? Davvero crediamo che quello che pensa il popolo sia giusto, sano, benedetto e ricco di serendipity a prescindere? Non abbiamo ancora capito quanto la massa senza forma sia una bestia grama, una cosa da temere, di cui avere paura, e che solo l’individuo è la sentinella di un pensiero libero, autonomo, coerente?

La dittatura della maggioranza è la vera patologia della democrazia moderna, diceva Tocqueville due secoli fa, e nessuna maggioranza potrà mai trasformare in giusto quello che è sbagliato, ricordava, a proposito di titani, Margaret Thatcher. Che forse - almeno per ora - è un po’ meglio di Conte, della Meloni e pure di Calenda.

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