L’eterna giovinezza
e il prezzo da pagare

Alcuni anni fa Massimo Fini, uno dei cronisti più colti e intellettualmente onesti nel deprimente panorama giornalistico nazionale - e infatti non è mai diventato direttore né opinionista di grido di un talk show - ha scritto parole profondissime sulla questione della vecchiaia.

Una riflessione terribile, di una durezza quasi disturbante, raccolta nel saggio autobiografico “Ragazzo-Storia di una vecchiaia” che fa a pezzi tutta la retorica, gli alibi, l’ipocrisia, la retorica caramellosa e gli infingimenti sulla cosiddetta “terza età”, raccontando l’orrore della fine del nostro cammino su questa terra e smascherando la grande bugia collettiva che ci accompagna da decenni. E cioè che il continuo allungamento della vita, della nostra speranza di vita, in realtà è una truffa, cinica e irridente, perché non è la vita che dovrebbe essere allungata a dismisura, e spesso fin oltre i limiti dell’etica, del rispetto e della decenza, ma la giovinezza, visto che quella, quell’età dell’oro, quel momento irripetibile, commovente e incomprensibile, quella stagione in cui gli altri ti chiamano “ragazzo”, appunto, sparisce nel giro di pochi, pochissimi anni. Mentre chi lo scimmiotta quando quel tempo ormai è passato non fa altro che coprirsi di ridicolo. Ed è giusto che sia così, visto che la nostra è una società che annega nel ridicolo.

Questa considerazione così sincera e così poco mainstream - che infatti i media si guardano bene dall’approfondire - è tornata alla mente dopo aver visionato l’ultimo rapporto Istat sui dati 2024 sullo stato di salute degli italiani. Che in apparenza, dopo lo choc del Covid, è in via di miglioramento, dato che l’aspettativa di vita ha ripreso a crescere, portandosi a 81,4 anni per gli uomini e a 85,5 per le donne. Tutto bene, quindi? Niente affatto, perché gli anni passati in buona salute sono sempre meno: 59,8 per gli uomini e 56,6 per le donne, con un balzo all’indietro di 1,3 anni in soli dodici mesi che fa prevedere 28,9 anni in cattiva salute per le donne e 24,6 per gli uomini. Un terzo della propria vita malconci. Non sembra una gran prospettiva, in effetti.

Questo dato spiazzante ci propone due ordini di riflessioni. La prima, ma qui non ci vuole certo un genio per capirlo, è il matematico default del sistema sanitario nazionale, visto che quando i baby boomer diventeranno ottantenni ci sarà un raddoppio dei costi per cure e assistenza, fino ad arrivare a un terzo dell’intera spesa sanitaria. Infatti, da qui a vent’anni il 40% degli over 65 vivrà da solo, senza nessuno a fare da supporto nelle normali esigenze domestiche o anche in quelle più delicate sanitarie e personali, visto che con l’età aumenteranno le patologie correlate, scompensi cardiaci, insufficienze respiratorie e neurologiche, tumori, diabete eccetera. Tanto è vero che l’Ocse ha calcolato che nel 2040 la spesa sanitaria salirà di quasi due punti di Pil, attorno ai 35 miliardi in più, a fronte di una società occidentale - e italiana in particolare - dove sempre meno gente lavora, ci sono sempre meno giovani e sempre meno gente paga i contributi per finanziare il sistema previdenziale e quello sanitario. Un futuro senza pensioni e senza assistenza sanitaria, visto che già oggi più del 40% degli italiani non autosufficienti non riceve alcuna forma di aiuto. E la cosa incredibile, talmente incredibile da diventare paradossalmente comica, è che questa dinamica non è ipotetica, ma certa. Certa al mille per mille. E la capiscono tutti. Tutti. Ma proprio tutti. Salvo i nostri statisti di destra, di centro e di sinistra, troppo impegnati nella dirimente difesa dei sacri diritti dei balneari, nel fondamentale dibattito sul terzo mandato e nell’imprescindibile questione del gender fluid e dei danni causati dall’arvicola alle colture per occuparsi del prossimo fallimento del nostro welfare. Giganti.

Ma fin qui, niente di nuovo. Siamo come sempre di fronte al nanismo di classi dirigenti patetiche e cialtrone che, tra un selfie su quanto è fascista la Meloni e un reel su quanto è comunista la Schlein, ragionano solo sui prossimi trenta giorni e mai sui prossimi trent’anni. Il tema più drammatico, visto che si tratta di un tema esistenziale, è invece un altro. Se questa è la deriva che abbiamo preso, se è questa la cultura - edonistica e disperata - del vivere, del comunque vivere, del vivere a prescindere e basta, che porta quindi a inginocchiarsi al sacro totem del mero allungamento dell’esistenza anche se il prezzo da pagare è, appunto, quello di una longevità falsata, di una finta longevità, di una longevità artificiale, costi quel che costi, anche con il rischio di passare trent’anni da rottame, la riflessione da fare - alla quale ognuno di noi può dare la risposta che ritiene, perché ogni risposta è lecita - è la seguente: ne vale davvero la pena? È davvero giusto? A che serve allungare la vita a dismisura se poi manca del tutto la nobiltà, la dignità, l’autonomia di ogni singola esistenza? A che serve? Che senso ha?

Certo, a questo quesito non c’è una risposta e allora il buon senso indicherebbe almeno la via mediana della prevenzione di massa, della diagnosi precoce, delle vaccinazioni, degli stili di vita corretti, del monitoraggio costante, della cura del tempo libero, degli stimoli fisici, culturali, intellettuali, sociali, comunitari eccetera eccetera, ma questo, il modo di vita giusto, il modo di vita adeguato, se lo possono permettere in pochi, perché anche questo costa, e molto, soprattutto con il passare degli anni. Basti pensare a quanti si possono permettere di accendere un’assicurazione privata all’altezza. E allora torniamo all’eterna ingiustizia del mondo: chi è ricco può programmare la seconda e terza fase della propria vita con tutti i paracadute e gli ammortizzatori possibili e immaginabili, gli altri è meglio che sperino di star bene.

Ma anche questo è un tema sul quale i nostri statisti di cui sopra, tra il taglio di un nastro e un altro, non mancheranno di pronunciare, a breve, parole illuminanti e definitive.

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