Ticosa: la “m...” non è stata l’acquisto, ma il dopo

In un piccolo cortocircuito con se stesso (capita quando si è iperattivi) il sindaco ha definito l’acquisto dell’area ex Ticosa con un termine offensivo che comincia con la “m...” e che non riportiamo per esteso. Peccato che forse a causa del cortocircuito di cui sopra abbia scordato di aver rivendicato (chissà perché?) l’operazione in un’intervista a questo quotidiano. Fosse vero si sarebbe dato del “m...” da solo. In realtà, il Comune di Como, come tutti sanno, fece propri gli spazi che ospitavano un’immensa tintostamperia quando il primo cittadino era Antonio Spallino, a cui peraltro, poco dopo la sua elezione, l’attuale inquilino di palazzo Cernezzi, disse di ispirarsi.

Insomma, Rapinese si sarebbe dato del “m...” due volte. Ma non importa, il nocciolo della questione che ha portato gli eredi di Spallino, in testa il figlio Lorenzo, a chiedere la restituzione dell’archivio del sindaco Antonio custodito in Comune, è un altro. Premesso che, il risentimento dei congiunti dell’ex sindaco è legittimo, ma non può privare i comaschi di un patrimonio come le carte che testimoniano un’epoca storica importante per la città, va ristabilita un po’ anche la verità storica.

L’acquisto, a metà degli anni ’80 della Ticosa fu tutt’altro che una “m...”. La scelta, sofferta dibattuta e contrastata, era dovuta al tentativo, nobile, di preservare i livelli occupazionali messi a repentaglio dalla chiusura choc di quella che era la principale industria di Como. Inoltre era prevalsa la volontà di recuperare un pezzo strategico di città che aveva mantenuto a lungo una destinazione produttiva. Nessuno poteva avere la sfera di cristallo e immaginare come sarebbe andata a finire. Anche perché i processi di deindustrializzazione erano già in corso e non mancavano esempi virtuosi di interventi pubblici in altre città.

Anche dal punto di vista finanziario, con l’accensione di un mutuo importante, ma a ottime condizioni, con Cassa Depositi e Prestiti, l’operazione non era stata dolorosa. Si narra anche che buona parte del prestito, grazie alle capacità politiche di esponenti comaschi sia stata a carico dello Stato. Di certo l’acquisizione non aveva terremotato le casse di palazzo Cernezzi.

Se le “m...” sono state fatte, ed è così, è successo dopo. Con l’incapacità in quasi quarant’anni di trovare un utilizzo di quell’area. Per cui è stato immaginato tutto e il suo contrario, senza mai andare oltre le enunciazioni. E quando è successo, come nel caso della demolizione del Corpo a C voluta dall’amministrazione guidata da Stefano Bruni, con tanto di fuochi d’artificio e illusori tazebao che annunciavano la soluzione del problema, si sono solo fatti ulteriori danni, come dimostra il nodo tutt’ora non del tutto risolto, della bonifica del sottosuolo.

Tuttora non si comprende, se non per l’insipienza e l’inadeguatezza di chi ha gestito la città negli ultimi 35 anni, come quasi tutte le altre aree dismesse abbiano trovato una seconda vita più o meno riuscita, e la più importante no. Ma questo non si può certo imputare a chi, con la realtà dell’epoca, abbia pensato di acquistarla. Caso mai bisognerebbe ricostruire tutte le “m...” compiute e comprendere quali ragioni e interessi, che certo non andavano in direzione di quelli della città, ci siano stati dietro. Perché su questa inefficienza qualcuno è anche riuscito a campare.

Rapinese, caso mai potrebbe salire sul treno della storia, sanando le “m,,,” compiute da chi lo ha preceduto e risolvendo il problema. Se non ci riuscirà peraltro, nessuno gli darà del’”m...”.

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