Una pietra sulla pace tra Israele e Palestina

Proprio come cinquant’anni fa in questi giorni (in Medio Oriente gli anniversari hanno un peso particolare), Israele si è lasciato sorprendere ieri mattina da un attacco arabo improvviso e inatteso. Ma le similitudini con quel 6 ottobre 1973, che segnò l’inizio della cosiddetta guerra del Kippur, durata oltre un mese, finiscono qui. Perché ieri abbiamo assistito a eventi senza precedenti. Prima di tutto, l’attacco non è stato condotto dagli eserciti regolari dell’Egitto o della Siria, ma dalle milizie islamiche palestinesi, che hanno dimostrato capacità militari evidentemente insospettate dagli israeliani. Poi, per la prima volta in un conflitto latente che dura da tre quarti di secolo, sono stati i palestinesi a penetrare in armi in territorio nemico e a colpire obiettivi militari e civili.

Gerusalemme ha dovuto ammettere con evidente disagio che commandos di Hamas partiti da Gaza hanno attaccato non meno di venti insediamenti di varie dimensioni nel centro-sud di Israele, ingaggiando sanguinosi scontri armati e mettendo a segno risultati preziosi per il morale e la propaganda della loro parte: la capacità di superare barriere di confine giudicate a torto invalicabili usando perfino dei deltaplani, la distruzione di un carro armato israeliano e la cattura del suo equipaggio, il sequestro di decine tra soldati e civili dello Stato ebraico e il loro forzato (e indisturbato) trasferimento nella Striscia di Gaza dove sono stati trascinati per le strade come ostaggi tra una folla esultante.

A questi fatti inediti e realmente scioccanti per i cittadini di Israele, si aggiunge l’elemento per così dire tradizionale di questi attacchi terroristici: il lancio di migliaia di razzi verso città e villaggi israeliani, che hanno provocato uccisioni e ferimenti oltre a incendi e danni rilevanti, costringendo la gente a cercare salvezza nei rifugi. Israele ha ammesso la perdita di non meno di cento persone, oltre a centinaia di feriti. Un disastro che appare la conseguenza diretta del fallimento dell’intelligence di un Paese che ha sempre potuto farsi un vanto dell’efficienza del proprio spionaggio: nessuno, pare, era stato in grado di prevedere un’aggressione in grande stile la cui dettagliata organizzazione ha certamente richiesto mesi se non anni di lavoro segreto.

Un colpo molto duro anche politicamente per il premier Binyamin Netanyahu, che ha subito dichiarato lo stato di guerra, richiamato decine di migliaia di riservisti alle armi e promesso a Hamas che pagherà un prezzo altissimo e senza precedenti. Facile, purtroppo, prevedere che quanto accaduto ieri altro non sarà che l’inizio di un conflitto lungo e sanguinoso in cui le mezze misure troveranno poco o nessuno spazio. Il danno inflitto anche al mito dell’invincibilità di Israele è stato molto grave e Netanyahu dovrà cercare di farlo dimenticare infliggendo una punizione a Hamas che potrebbe arrivare, almeno nelle intenzioni, perfino al suo annientamento.

La popolazione di Gaza, in queste ore, è divisa tra il giubilo per l’umiliazione inflitta al “nemico sionista” e la paura per la violenza della sua rappresaglia, che è già in pieno svolgimento. Soprattutto i residenti delle aree più vicine al confine con Israele stanno abbandonando le loro case, temendo un’invasione terrestre.

La dirigenza di Hamas, come ha sempre fatto, non si cura di queste conseguenze delle sue azioni: per essa, morire nella “guerra santa” è il massimo degli onori e il parere di chi viene spinto a tale destino non è richiesto. Logico chiedersi con quali obiettivi Hamas abbia lanciato quella che pare un’operazione suicida.

Diremmo due principalmente, tra loro connessi: la volontà di riportare in primo piano il ruolo politico e militare dell’organizzazione e la causa palestinese, a loro avviso tradita da quei Paesi arabi che accettano di riconoscere Israele; più nello specifico di silurare la storica intesa in fieri tra lo Stato ebraico e l’Arabia Saudita.

Inutile dire che la vittima collaterale di questo incendio sarà il fantomatico percorso di pace israelo-palestinese. Ma la triste verità è che, da quelle parti, la pace non la vuole quasi nessuno.

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