Desiderio inconscio. Schnitzler e quella realtà che non si può dire

Libri Un’analisi del romanzo “La signora Berta Garlan”del letterato viennese freudiano. La matrice psicanalitica dentro un amore adolescenziale

La percezione del tragico scollamento tra realtà e rappresentazione, e cioè tra la vita e il suo racconto, oppure l’“indecenza dei segni”, come la definì Hugo von Hofmannsthal, uno grandi interpreti della straordinaria stagione culturale che tra Ottocento e Novecento accompagnò il crollo della Monarchia asburgica, ha trovato la più compiuta e sistematica espressione nella psicanalisi di Freud, che forse poteva fiorire solo nella Vienna di quegli anni, giustamente definita da Karl Kraus «esperimento del mondo» e «stazione meteorologica della fine del mondo».

Il più freudiano dei freudiani

Nei primi decenni del secolo scorso, infatti, i letterati viennesi erano tutti freudiani, in maniera diretta o indiretta, consapevole o inconsapevole, perché le teorie psicanalitiche – e più ancora l’approccio psicanalitico ai dati sfuggenti della realtà e del comportamento umano – facevano quasi parte della composizione chimica dell’atmosfera.

Il più freudiano dei freudiani (anche se con alcune sostanziali riserve sulla simbologia della psicanalisi e sul ruolo dell’inconscio, che a suo modo di vedere era piuttosto un “semi-conscio” o un “medio-conscio”), per certi versi addirittura più freudiano di Freud, capace di restituire le intuizioni della psicanalisi in altissime figurazioni artistiche, è stato con ogni evidenza Arthur Schnitzler, che peraltro è stato anche il più viennese dei grandi scrittori viennesi: “arciviennese”, secondo la simpatica e indovinata definizione del compianto Italo Alighiero Chiusano. Nella “Bur” Rizzoli è da poco uscita l’edizione aggiornata di un suo romanzo apparso originariamente nel 1901, più volte tradotto in italiano ma sostanzialmente poco conosciuto: “La signora Berta Garlan”, proposto nella nuova e ottima traduzione di Renata Colorni (che rende finalmente giustizia anche alle minime sfumature del dettato di Schnitzler, soprattutto per quanto riguarda il “monologo interiore” e la straniante alternanza dei tempi della narrazione) e con un saggio di Vittorio Lingiardi, psichiatra e psicanalista (autore tra l’altro del recente “Corpo, umano”, pubblicato da Einaudi), che si sofferma in particolare sulle affinità e divergenze tra Schnitzler e Freud, fornendo un’illuminante chiave interpretativa del romanzo.

Come il suo collega tedesco Alfred Döblin, che in “Berlin Alexanderplatz” ha esplorato non solo l’inconscio individuale, ma anche i gangli viscerali dell’esistenza in una grande città, Arthur Schnitzler era medico di professione, con varie specializzazioni: psichiatria, dermatologia e otorinolaringoiatria (aveva uno studio nel centro di Vienna e prima di scoprirsi scrittore, intorno ai trent’anni, aveva pubblicato un pioneristico studio sull’ipnosi terapeutica applicata alla disfonia funzionale).Non si tratta di una semplice curiosità biografica. Come ha osservato giustamente Döblin, la conoscenza approfondita del funzionamento e malfunzionamento dell’organismo umano, unita al talento e alla qualità stilistica, costituisce almeno potenzialmente una base molto importante per ricreare e reinventare la vita (il suo funzionamento, ma soprattutto il suo malfunzionamento) nella letteratura.

Lettera rivelatrice

Non stupisce quindi che nel 1922, in occasione del sessantesimo compleanno, l’altrimenti riservatissimo Freud abbia inviato a Schnitzler una lettera di sincere felicitazioni, riconoscendo nel grande scrittore una specie di fratello, o perfino un doppio, un sosia. La lettera di Freud è molto rivelatrice e merita di essere riportata per intero: «Il suo determinismo, il suo scetticismo, il suo essere dominato dalle verità dell’inconscio, dalla natura istintuale dell’uomo, il suo demolire le certezze culturali convenzionali, l’aderire del suo pensiero alla polarità di amore e morte, tutto questo mi ha colpito con un’insolita e inquietante familiarità. Credo che nell’intimo del suo essere lei sia un ricercatore della psicologia del profondo, così sinceramente obiettivo e impavido come nessuno prima di lei. Ho avuto l’impressione che lei, attraverso l’intuizione, sapesse tutto ciò che io ho scoperto con un faticoso lavoro sugli uomini»

Freud si riferiva in particolare a “Il dottor Gräsler, medico termale”, uscito cinque anni prima, che insieme a “Doppio sogno” e “Fuga nelle tenebre” rimane indiscutibilmente il più psicanalitico dei racconti dell’“arciviennese” Schnitzler. Ma le parole e il giudizio del padre della psicanalisi sono molto utili anche per inquadrare “La signora Berta Garlan”, che insieme a “Il sottotenente Gustl”, scritto e pubblicato nello stesso periodo, costituisce un fondamentale punto di snodo, perché è il primo testo narrativo di Schnitzler nel quale compaiono temi, suggestioni e riferimenti di chiara matrice psicanalitica.

Il racconto “dall’interno”

Non è importante cosa si racconta, ma come lo si racconta: Gustave Flaubert e “Madame Bovary” insegnano che un tristo e banale adulterio di provincia è soltanto un pretesto per esprimere una dolorosa verità universale. Lo stesso discorso vale per “La signora Berta Garlan”, la cui trama farebbe quasi pensare a un romanzo d’appendice: la protagonista, una giovane vedova che vive insieme al figlio in una piccola città della provincia austriaca, nella regione della Wachau, si illude di poter rivivere a Vienna l’emozione, l’incanto e la vertigine di un lontano e mai dimenticato amore adolescenziale per un compagno di conservatorio, che nel frattempo è diventato un celebre violinista.

Ma tra la realtà effettuale e le proiezioni immaginative, come sempre, c’è un profondo iato: il celebre violinista, infatti, si rivela un individuo abietto, superficiale, narciso e crudele, che non esita a blandire e ingannare Berta per poi eclissarsi. La giovane vedova rimane quindi nella cittadina di provincia e continua la propria grigia esistenza, in una quotidianità più o meno senza scampo. Niente di speciale, si potrebbe pensare, e soprattutto niente di nuovo. E invece nelle pagine de “La signora Berta Garlan” è tutto nuovo, anzi nuovissimo e “perturbante” nel senso freudiano, perché Schnitzler racconta per così dire dall’interno, calandosi nell’inconscio (oppure nel “meta-conscio” e nel “semi-conscio”) della protagonista e modulando la narrazione su un continuo e disorientante sovrapporsi dei piani prospettici. Nessuno lo aveva fatto prima, molti lo faranno dopo, con esiti anche notevoli. Ma il diritto di primogenitura spetta a Schnitzler e alle tesissime pagine di questo meraviglioso e davvero imperdibile romanzo.

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